Aprile 24 2020

Giorni 44/50 – La Quinta Porta

La boccata d’aria è arrivata. Un’aria pura, ossigenata, direttamente “dalla fonte”. 

Sono partita con Leonardo, perché l’idea di andarmene di nuovo senza di lui e di fargli passare giorni e giorni e giorni senza sapere dove sono e come sto mi risultava insopportabile. Con Giacomo abbiamo dedotto che, tutto sommato, non sembrano esserci situazioni davvero pericolose: lo sembrano, a volte, ma è come se il lieto fine fosse sempre dietro l’angolo. Mai come in questo momento abbiamo bisogno di avventure con un lieto fine. Vivere in tutta questa incertezza, dell’adesso e del dopo, ci sta cambiando profondamente e, se noi adulti siamo in grado di elaborarlo, esternarlo e condividerlo, magari anche superarlo con qualche seduta di terapia, non abbiamo la più pallida idea di quello che sta accadendo ai nostri bambini. Leonardo sta bene, è felice, canta, gioca, corre all’aria aperta. Fa lezione con me tutte le mattine in cui sono a casa, e gioca liberamente il pomeriggio. Dalle 17.00 in poi può guardare i cartoni e, nelle pause di tutto il giorno, può giocare occasionalmente con i videogiochi. Dorme la notte, mangia, cresce: a me sembra che stia vivendo una lunga primavera di divertimento. Chissà cosa c’è nel suo cuore, però. Chissà cosa ricorderà da grande.

La sera, quando è addormentato, passo sempre in camera sua e gli parlo. Gli dico cose che spero entrino nei suoi sogni, nel profondo del suo inconscio, cerco di dargli tutto quello che io credo di non avere.

Insomma, siamo partiti insieme.

La Quinta Porta è stata una sfida. All’inizio, non riuscivamo ad entrare: una volta aperta la porta con la chiave, ci siamo trovati davanti un fitto muro di foglie, rami e tronchi. Era come trovarsi all’interno di un enorme albero secolare. Stavo per desistere e tornare “di sopra”, in casa, a prendere delle cesoie o qualcosa con cui scalfire quel muro vegetale, quando Leonardo mi ha detto: “Aspetta. Io so come fare.”

Con pazienza e precisione ha cominciato a districare alcuni dei rami più piccoli, piano piano, lentamente, fino a creare un piccolo varco. In queste situazioni, io perdo spesso la pazienza. Mi pare sempre che, per noi adulti, non ci sia poi tutto questo tempo da perdere, mentre per i bambini è tutta una scoperta, una sperimentazione, e poco importa se sfocia nel nulla, per loro quello stesso processo è stato sensato e logico. Invece per me, che so già come andrà a finire, è solo una perdita di tempo, perché so che stiamo facendo un tentativo che si risolverà con un buco nell’acqua. Mi capita molto spesso, anche fuori dal contesto del Tunnel e delle Porte, dove ho l’impressione di dover “fare in fretta”. Mi capita di spazientirmi quando Leo non riesce a montare un Lego abbastanza rapidamente, o quando non capisce come programmare il suo robot giocattolo per fargli compiere il percorso giusto. Mi spazientisco quando non ricorda i nomi delle lettere o quando giochiamo per la seicentesima volta allo stesso gioco senza modificare lo scenario di una virgola. Mi spazientisco quando ci mette un’ora a lavarsi sotto la doccia, o a vestirsi. Diciamo che, se non si fosse capito, la pazienza non è il mio forte. 

Dopo cinque o dieci minuti di districare lentamente, però, il varco che aveva aperto non era più così piccolo e abbiamo deciso di infilarci e provare a introfolarci in quella selva. Sono andata prima io, come sempre, per accertarmi di eventuali pericoli. Non ce n’erano, quindi ho fatto entrare Leo dopo di me. Ci siamo ritrovati nel folto dei rami di un albero: non era un alberello, non era come l’ulivo del nostro giardino, un albero “domestico” e mansueto, ma un albero enorme, alto almeno 15 metri, e noi ci trovavamo a metà. Man mano che procedevamo tra i rami, ci rendevamo conto che l’altezza era troppa per permetterci di scendere. Il tronco era grosso e forte, e anche i rami su cui poggiavamo noi erano resistenti. Potevamo esplorarlo, ma non scendere. Dovete sapere che io ho sempre adorato arrampicarmi sugli alberi. Era una delle mie attività preferite da piccola, ma nel nostro giardino non c’erano tanti alberi su cui potersi arrampicare veramente. C’erano siepi basse, una magnolia, dei pini marittimi. Tutte piante poco compatibili. Ricordo un meraviglioso albero nel parco della mia città, lì ci si poteva arrampicare alla grande, e ho continuato a farlo fino all’inizio delle superiori. Un giorno, misteriosamente, non ci sono più riuscita. Non credo fosse una questione di forza fisica o di peso, se è quello che state pensando. È che ho come smesso di pensare di poterlo fare. Come nel caso di Peter Pan, se dubiti di poter volare, perdi contestualmente la capacità di farlo. Per me ha funzionato così con gli alberi. Quando ho messo in discussione la mia capacità di salire là sopra, non sono mai più riuscita. È stata con somma gioia, quindi, che due anni fa, quando Leonardo aveva quattro anni, l’ho visto salire insicuro e titubante sul nostro ulivo, perfetto per le prime arrampicate di un bambino. Non gli ho mai detto “Non ce la puoi fare”; mai, nemmeno una volta. Gli ho sempre detto di stare concentrato, di provare poco per volta. E lui ce l’ha sempre fatta. È caduto solo un paio di volte, senza gravissime conseguenze.

Trovarmi su un albero a così grande altezza e con così tanto “territorio” da esplorare mi ha fatto quasi svenire. E svenire, a 15 metri di altezza, non è una grande idea. Un’emozione fortissima, che ha mischiato il senso di paura, di insicurezza, di precarietà, di pericolo anche, con la memoria della sensazione di libertà assoluta che si prova durante l’infanzia. L’odore di salato del sudore dell’estate tra i capelli. Il profumo della clorofilla. Il rumore degli insetti e degli uccelli di cui stai violando la casa, ma con garbo. I cielo più vicino. Non so quanto ci ho messo a ricompormi, ma so che nel mentre Leonardo aveva cominciato a spostarsi rapidamente sull’albero. L’ho seguito subito, per non perderlo di vista lì in mezzo, e abbiamo scoperto una cosa bellissima. Non c’era un solo albero, ce n’erano a centinaia, ma non ci trovavamo in una foresta, bensì in uno strano piccolo villaggio con strade, muri di pietra, casette, un fiumiciattolo, una piazza. Solo che in quel posto gli alberi erano ancora così fitti che si poteva pensare di spostarsi per tutto il villaggio senza mai scendere. Si stendevano a perdita d’occhio ed erano così vecchi e con rami così forti che si intrecciavano dall’uno all’altro, che potevamo facilmente esplorare fin dove volevamo senza dover mettere piede a terra. Non ho fatto in tempo a decidere il da farsi che Leonardo aveva deciso al posto mio: ha cominciato a passeggiare tranquillo sui rami, a spostarsi, a muoversi ed esplorare. Era sicuro di sé, forte dell’allenamento sull’ulivo di casa, ma anche delle sue più recenti scalate all’interno della siepe che contorna il nostro giardinetto. Lì i rami sono fitti fitti e lui, sfidando le leggi della fisica e della botanica, riesce ad arrampicarsi fino in cima. In questo mondo sugli alberi, quindi, non ha avuto nessuna difficoltà a prendere il comando. Abbiamo quindi cominciato a spostarci in qua e in là e con nostra somma meraviglia a terra, nel villaggio, abbiamo cominciato a vedere delle persone.

“Saluti!” ci dicevano, come se vederci lassù fosse la cosa più normale del mondo. 

“Ciao!” rispondeva Leo con la sua voce cristallina e squillante, agitando pericolosamente una mano, mentre con l’altra si reggeva sempre da qualche parte. Dovevamo trovarci a metà del 1800 credo: i vestiti degli abitanti, le architetture, i calessi con i cavalli, e la presenza di così tanti alberi in un borgo abitato mi hanno fatto venire subito in mente quel periodo. La vita nel villaggio scorreva tranquilla, ma abbiamo notato una cosa strana. Sugli alberi, nascosti qua e là, c’erano degli oggetti. Una piccola libreria di legno con dei vecchi libri, una tavola di legno con un lapis e un temperino nel portaoggetti, un letto rudimentale, chiaramente abbandonato da molto tempo. Alcune madri passeggiavano con i figli per mano, e i bambini hanno cominciato ad indicarci.

“Mamma guarda! Loro due sono come Cosimo!”

Le donne si fermavano a guardare, si inchiavano, ci salutavano. Poi correvano via, ad avvisare altri abitanti e altri ancora. Siamo arrivati a quella che doveva essere la piazza principale: lastricata di pietra chiara, era attorniata da alberi ovunque e c’era una meravigliosa luce, una penombra intima e riposante. Ci siamo seduti su uno dei rami più esposti e, sotto di noi, si è radunata in poco tempo una piccola folla. Alcuni si sono portati delle seggioline o degli sgabellini da casa e si sono seduti “con noi”. Ci siamo presentati, sia io che Leonardo, e abbiamo cominciato a fare amicizia con queste strane persone, così accoglienti e ospitali, che sembravano aspettarci da tempo.

Alcuni ci chiedevano come fossimo arrivati lì, e nonostante la mia ritrosia, Leonardo ha raccontato tutto: i Tunnel, le Porte, l’ingresso tra i rami, la passeggiata. Ci hanno chiesto perché fossimo lì. Per fare amicizia, ho detto io. Per incontrare qualcuno di nuovo. Ho allora raccontato dell’epidemia che stiamo vivendo, a casa, e del fatto che non possiamo uscire da quasi due mesi, che non possiamo vedere la nostra famiglia, i nostri amici. Erano tutti scossi e dispiaciuti, ma proprio per questo ci hanno offerto di fare un po’ di festa insieme. In fondo a uno degli alberi della piazza, su uno dei rami sporgenti, c’era un sistema di carrucole e cesti fatti apposta per permettere a chi si trovava a terra di passare cose a chi si trovava su. 

Questo mi ha un po’ insospettito: sembra che lì, in quel posto, fosse normale aspettarsi “ospiti” sugli alberi. Non era così, non era una cosa normale, ma era una cosa che speravano accadesse di nuovo. Nel villaggio, infatti, si conservava la memoria di un ragazzo che quasi 100 anni prima aveva deciso di salire su un albero e di non scendere mai più, per tutta la sua vita. La sua famiglia pensava che la sua vita fosse finita, che fosse impazzito, ma si sbagliava. Vivere lassù, sugli alberi, aveva regalato al ragazzo una prospettiva tutta nuova e, con questo dono, che aveva custodito fino alla morte, e anche dopo, Cosimo – questo era il suo nome – aveva compiuto imprese memorabili, aiutato tante persone e addirittura ispirato storie e racconti. 

Noi eravamo i primi ad apparire lì da tanto, tanto tempo, e gli abitanti erano felici, perché era come una leggenda che diventava realtà. Leonardo nel mentre ha cominciato a giocare con i bambini del villaggio. È incredibile quanto i bambini siano pieni di risorse. Si sono subito organizzati per giocare “a distanza”, lanciandosi una palla da giù a su, oppure con un cordino e un legnetto da prendere al volo, o passandosi dei sassi da usare come piccoli proiettili. Leonardo non voleva scendere, voleva restare lassù, anche perché gli ho spiegato che non sappiamo cosa potrebbe succedere se scendesse dall’albero, “rompendo” la leggenda a cui tutti gli abitanti credono. Loro pensavano, infatti, che chiunque salisse sugli alberi poi non potesse mai più scendere, ed era esattamente quello che si aspettavano da noi. Erano però tutti molto attenti e interessati a noi. Partecipi direi. E Leonardo rideva e si divertiva, giocando con bambini della sua età, come non lo sentivo ridere e giocare da un bel pezzo.

È stato a quel punto che un pensiero folle mi ha attraversato la testa. Dovete però capire che quando facciamo questi viaggi le regole del buonsenso si sovvertono, la realtà viene distorta e il modo stesso in cui viviamo viene ribaltato, messo in discussione. Quello che viene considerato normale nella nostra realtà, spesso è semplicemente noioso o stupido, dentro alle porte. Quindi mi è venuta un’idea.  Ho pensato: ma se ogni tanto facessi venire Leonardo qui dentro da solo? Cosa potrebbe succedergli esattamente? Illogico vero? Stiamo parlando di lasciar vagare un bambino di 6 anni da solo in un mondo fatto di alberi, con degli sconosciuti a terra, facendolo peraltro saltare avanti nel tempo senza controllo. In parte, questa idea folle mi è venuta perché mi ha fatto molto piacere vederlo giocare con degli altri bambini, dopo tanto tempo. In parte, sicuramente, per ragioni egoistiche. Vorrei stare un po’ da sola in casa, vorrei dormire un po’ di più, oppure semplicemente non preparare pranzo e cena quando ha fame. Vorrei passare il mio tempo a scrivere o lavorare senza distrazioni, vorrei fare qualcosa che mi diverte senza sentirmi in colpa perché lo sto trascurando. Vorrei regalargli un po’ di normalità, di divertimento senza di me, di complicità con i suoi coetanei. Ma non posso. Quindi mi vengono queste idee dementi, di lasciare mio figlio in un posto che non so nemmeno bene cosa sia, né dove o “quando” sia, a giocare con dei bambini sconosciuti dall’alto di alberi di 15 metri.

Siamo rimasti a lungo. Ci siamo goduti il pranzo con il villaggio, e ci hanno passato pane, acqua e formaggio con i panieri appesi alle carrucole sugli alberi. Deliziosi. Poi alcuni di loro sono andati a sbrigare delle faccende domestiche, e mentre Leonardo si è letteralmente perso in giro, io sono rimasta con un ragazzo di nome Biagio e una giovane donna di nome Violante, che mi hanno raccontato tantissime cose e fatto tantissime domande. Io non sapevo bene come comportarmi. In questo periodo, stiamo guardando Star Trek e sono rimasta molto affascinata dalla Prima Direttiva: che diritto abbiamo di turbare la vita di una comunità con informazioni o tecnologie troppo “al di sopra” delle loro possibilità? Se questo mondo in cui mi trovo è reale, ed è magari nel mio passato, io sono qui con un bagaglio di informazioni che queste persone non possono gestire facilmente. Devo rispondere alle loro domande oppure no? Devo dire la verità o mentire? Cosa può succedere con il mio intervento? E ancora: il mio tempo prevede tutto questo, cioè il presente che io vivo è già stato influenzato da me che viaggio nel passato, oppure le mie azioni qui possono cambiare quello che accadrà nella nostra società? È a questo e a mille altre cose che penso mentre loro mi raccontano le loro vite, le loro abitudini, il modo in cui si divertono, in cui vivono, in cui fanno festa o in cui sono tristi. Dopo un’intera giornata a parlare, è arrivata la sera. Abbiamo cenato insieme, con una piccola festa di piazza: hanno arrostito degli animali, preparato un falò e una piccola banda improvvisata ci ha allietato con la musica. Io non ho ben capito il perché di tutta quella festa: eravamo solo due sconosciuti apparsi su un albero. Non avevamo portato niente di speciale, non avevamo raccontato niente di speciale, non eravamo minimamente speciali. Ma loro erano felici. 

Ci ho pensato molto, poi, al perché di tutta quella felicità. Credo che fosse un premio per la loro fiducia. Era come aver aspettato tanto, tanto a lungo qualcosa, aver impostato forse anche gran parte della vita del villaggio secondo una certa etica, e, finalmente, vedere che i propri sforzi e le proprie convinzioni non erano stati del tutto vani, anzi. Ho pensato ai nostri paesi, anche quelli di provincia, dove non ci sono più alberi lungo le strade, se non in casi eccezionali. Dove tutto è a misura di automobile ovviamente, e dove il verde pubblico è spesso recintato, protetto, quasi fosse un animale raro. Lì invece queste persone vivevano sotto i loro alberi e guardavano sempre all’insù, per vedere e se qualche pazzo o qualche forestiero aveva di nuovo deciso di vivere sugli alberi. E siamo arrivati noi. Siamo stati diverse ore lì dentro, da pranzo a cena direi, ma già mentre mi trovavo lì ho deciso che ci saremmo tornati. Che sarebbe diventata un po’ una “tappa fissa”. Le altre volte non avevo sentito questa necessità. Le altre Porte erano come… dei racconti conclusi che non sentivo l’esigenza di rileggere. Nella Quinta Porta invece ho sentito un’energia strana, mi sono sentita, in parte, come “a casa”, in un luogo dove non ero mai stata e, nel contempo, che non visitavo da tempo, di cui avevo nostalgia.

Proimettere di tornare è stato l’unico modo per portare via Leonardo, in effetti, che non ne voleva sapere di lasciare i suoi nuovi amici. Siamo tornati a casa, abbiamo raccontato tutto a Giacomo e, dopo un po’ di tempo nella nostra normalità, abbiamo deciso di tornare lì spesso, tanto spesso quanto andiamo al fiume sotto casa. Non tanto per me, ma per Leonardo. Lui aveva trovato dei nuovi amici ed era letteralmente impossibile pensare di non farglieli vedere mai più. Quello che abbiamo fatto le volte successive nella Quinta Porta ve lo racconterò un’altra volta, ma è stata una porta fondamentale per tre motivi. Il primo è che ha permesso a mio figlio di giocare con qualcuno che non fossimo io o suo padre, dopo tanto tempo. Il secondo è che ci ha fatto incontrare persone nuove, con cui in qualche modo ho stretto amicizia. Il terzo è che ci ha fatto capire a cosa diavolo servivano quei tastierini di metallo fuori da tutte le porte. Ve ne eravate dimenticati, vero? Beh, noi no, perché li vediamo ogni volta che scendiamo nel Primo Tunnel. Diciamo che il tastierino numerico è stato fondamentale per tornare nella Quinta Porta. Ma ve lo racconto un’altra volta. Oggi sono stanca e mi manca il profumo degli alberi, penso che tornerò là dentro ancora un po’.

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