Aprile 24 2020

Giorni 39-40-41-42-43 – Mal di testa, creatività e maternità

È dall’inizio di questa clausura che, ogni volta che mi metto a scrivere o a lavorare al computer, mi viene mal di testa. Sento proprio un senso di disagio strisciante che all’inizio è impercettibile, ma presto si trasforma in un fastidio martellante, e sfocia nel dolore. Dolore, per me, significa molte cose: chi prova dolore fisico, di solito, ne ricerca la causa e lo risolve. Io no. Quando provo dolore fisico, soprattutto se riguarda la testa e gli occhi, penso immediatamente di avere io qualcosa che non va. Penso che non ce la farò, che sono stupida, che sta tornando l’ansia, che magari arriverà anche la depressione. Mi concentro così spasmodicamente sulla paura di quello che sono che non mi rendo conto che a volte, semplicemente, non è colpa mia. Non è colpa mia se ho mal di testa e non riesco a lavorare, ma del monitor del 2010 che va a criceti, con luminosità e colori completamente starati. È bastato un attimo, a Giacomo, per sedersi alla mia postazione domestica (guarda caso allestita proprio non appena è cominciata la clausura, per essere pienamente operativi) e rendersi conto che non era possibile lavorare in quelle condizioni. Mi ha comprato un altro monitor che arriverà domani, e con questo posso finalmente risolvere il problema. Nessun bisogno di auto analisi, nessuna questione irrisolta dell’infanzia, nessun fallimento incipiente nella mia vita: solo un monitor vecchio.

Fatto sta che finché non risolverò il problema del monitor non riuscirò a scrivere come si deve, perché i sintomi che mi causa la visione affaticata sono troppo simili a quelli dell’ansia, e anche se non ho l’ansia, i sintomi fisici tendono a scatenarmela. Devo quindi aspettare.

Un altro elemento che non rende semplice la scrittura è la presenza in casa di mio figlio, 24 ore su 24, 7 giorni su 7. Chi non ha figli, fa domande nonsense tipo: “Ma se odi tanto stare con tuo figlio, forse hai un problema, non pensi? Se passare del tempo con lui ti fa stare così male, forse dovresti renderti conto che non ti piace avere figli”. Chiunque abbia uno o più figli si rende immediatamente conto dell’assurdità di questa affermazione, ma temo che chi non ha figli la pensi davvero così. Viviamo in uno stato che sbandiera di continuo la “famiglia tradizionale” come mantra con cui riempirsi la bocca, ma che poi di fatto ostacola in ogni modo gli individui nel gestire famiglia e lavoro, soprattutto le donne. Quando un nido costa 900€ e una persona riesce a guadagnarne magari 1000€ al mese, oppure quando non esistono scuole materne statali, nei piccoli comuni, ma solo parificate. Quando per ogni minimo sussulto, sono le famiglie, privatamente, a doversi far carico di tutto e, sempre di più le donne. Ma non perché siamo martiri volontarie, bensì perché spesso i nostri compagni guadagnano più di noi, o hanno una spregiudicatezza innata che li porta lontani dalle faccende domestiche, pensando e sperando che tanto qualcuno sistemerà tutto. Beh, quel qualcuno siamo sempre noi, e alla lunga è penalizzante per chi, a differenza mia ad esempio, si trova accanto dei maschi impreparati e profondamente maschilisti, che non sono in grado di dividere equamente o quasi i compiti domestici, e pensano di essere passati dalla madre-cameriera alla moglie-governante.

Giacomo ha cercato di spiegare a un amico le cose in questi termini:
“Non chiediamo allo scuola pubblica di riaprire non perché non li vogliamo attorno, ma perché nel contratto sociale che è alla base della nostra società sta scritto che a fronte di certi nostri doveri espliciti o impliciti (lavorare, pagare le tasse, rispettare la legge, ecc.) abbiamo anche determinati diritti, come quello di poter affidare i nostri figli a persone brave e preparate che li educhino e gli forniscano un toolkit culturale e sociale.”

I genitori, in questo momento, più di chi non ha figli, si trovano a fare i conti con una serie di difficoltà inedite e una serie di limitazioni draconiane che ci legano le mani ancora di più. Questo, però, è impossibile da percepire per una classe di governanti e reggitori che sono maschi, abituati ad avere prime, seconde e terze mogli che si occupano flat della prole, e in aggiunta hanno governanti (vere, stipendiate intendo), colf, autisti e una pletora di personale che pensa a tutto, in più hanno soldi infiniti, o quasi. Hanno quel quantitativo di soldi che ti pone al di sopra dei problemi comuni, come ad esempio: “Mi conviene lasciare il lavoro, oppure ha senso che devolviamo in toto uno dei nostri due stipendi per la babysitter, ma entrambi continuiamo a lavorare?”
Sembrano questioni anacronistiche, ma lo Stato era in difficoltà anche prima di questa pandemia, e ora sta dando il meglio del suo meglio. Penso alle persone con figli con disabilità, che in questo momento si devono fare carico al 100% delle cure, a chi ha anziani in casa e non sa come gestirsi, se fare venire le badanti rischiando il contagio, o ridurre drasticamente la quantità e la qualità delle cure perché – pensa te – non possono lasciare il lavoro e non possono dedicarsi 24 ore su 24 ai genitori malati.

A volte penso che non sia stato solo il monitor a farmi venire un’emicrania bestiale, ma per ora posso fare una cosa sola. Posso aspettare che arrivi il monitor nuovo, e ridurre almeno il fastidio agli occhi, ma ci sono tante cose che non passeranno troppo presto e che continueranno a rimbalzarmi nella testa. Come sempre, parlo dal mio trono dorato di fortuna e felicità, da un compagno che è un alleato e non un inetto, da una casa spaziosa, da un bambino felice, da un giardino, dalla campagna, da una famiglia in cui finora nessuno è stato contagiato. Ma non riesco a empatizzare con chi sta sicuramente peggio di noi, e non riesco a sopportare l’iniquità di un Paese forte con i deboli e debole con i forti.

Per questo e per altri motivi sepolti troppo in profondità per poterli scrivere qui ho un’emicrania che non mi abbandona.

Aspetto di entrare nella Quinta Porta, ci andrò domani con Leonardo, perché ho voglia di fargli fare un giro e perché si merita una boccata d’aria. È proprio questo che spero ci aspetti: una boccata d’aria.

Commenti

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *