“Il videogioco è uno psicofarmaco democratico. Come dire: agisce sul sistema nervoso, ma solo se il soggetto è consenziente.”
I. Fulco, “Lo zero ludico”, in M. Bittanti, Per una cultura dei videogames, Edizioni Unicopli, Milano 2002.
1.1 Introduzione a un nuovo medium
Pensare a una definizione univoca e precisa per descrivere il videogioco non è semplice. Istintivamente, a me, in quanto giocatrice, sembra superfluo e quasi ridondante definire il videogioco. È come per un lettore trovarsi a definire un libro. Per una generazione come la mia (e ancora di più per quelle successive), che ha imparato a videogiocare ancora prima di imparare a leggere, descrivere un videogioco non è un’operazione “naturale”: ci si rende conto che parlare di un videogioco è tutt’altra cosa rispetto a giocare con esso. La percezione che si ha dello schermo (che sia quello del televisore o quello del computer), della tastiera, del mouse, del joystick o del joypad, l’emozione e il coinvolgimento che si provano durante una sessione di gioco, il potere di immersione e pervasività che il gioco ha su chi lo fruisce, il suo effetto ipnotico, la dipendenza che crea, sono tutti fenomeni difficili da definire in termini astratti: vanno sperimentati direttamente. Un videogioco, un libro o un film, possono essere raccontati, ma nel momento del racconto diventano qualcos’altro, si trasformano e perdono la loro essenza originaria. Così come il libro e il film non corrispondono al loro resoconto, alla semplice trama narrativa, così come la lettura e la visione non corrispondono alla descrizione dell’esperienza, anche il videogioco non è assolutamente riproducibile per mezzo delle parole. Tutto quello che è possibile “ricostruire” di un videogioco attraverso il codice verbale è un’impressione generica, una serie di riflessioni più o meno personali; quello che si ottiene, alla fine, non è altro che il racconto di un’esperienza. L’esperienza, però, prima o poi, va vissuta. Non sarebbe possibile effettuare l’analisi di una poesia senza mai averne letta una, oppure di un film senza la consapevolezza della visione cinematografica. Non è possibile commentare senza sperimentare e non si può comprendere appieno senza aver vissuto, almeno una volta, anche brevemente, un’esperienza videoludica.
Questa premessa è fondamentale ed è funzionale al mio lavoro: voglio infatti dimostrare (o, quantomeno, suggerire) che il videogioco consiste essenzialmente in una performance del giocatore e che, senza questa performance, non solo viene evidentemente a mancare l’esperienza ludica legata al gioco, ma è anche impossibile (o fortemente improbabile) comprendere e quindi analizzare il videogioco stesso. Voglio spiegare che il videogame, medium nuovo e prepotente, che negli ultimi quarant’anni si è insinuato e insediato nella nostra1 quotidianità, può essere visto sotto tanti aspetti e analizzato da molteplici punti di vista, non ridotto e ricondotto solamente a pochi elementi (quali la trama narrativa, la grafica, la funzione di intrattenimento). Voglio suggerire che la performance è il punto di partenza per una comprensione adeguata.
Nel corso degli anni, i Game Studies, materia nuova, nata di riflesso per studiare i videogiochi, hanno seguito vari “filoni”: l’attenzione è stata incentrata sulla narrazione, sull’integrazione dei media, su elementi tecnici, su elementi visivi. Ora molti studi convergono su un punto: il videogioco, prima di essere un prodotto, è sicuramente un’esperienza. Mostrerò come lo sviluppo e la diffusione del videogame, similmente a quello del cinema, abbia costretto i fruitori a interagire con una forma d’arte nuova, secondo modalità inedite: nel caso del cinema, si è imparato a osservare e ascoltare, nel caso del videogioco è stato necessario osservare, ascoltare, leggere e interagire attivamente. In entrambe le circostanze, però, il “pubblico” si è trovato davanti a una novità che andava sperimentata in prima persona, di cui non era sufficiente avere un resoconto, per quanto dettagliato potesse essere. Nessuno ora potrebbe pensare di spiegare il cinema senza mostrarlo. Lo stesso vale per il videogame: è impensabile cercare di comprenderlo e analizzarlo se non si è prima giocato (e deve giocare sia chi scrive sia chi legge sui videogiochi).
Certamente, la letteratura sull’argomento sta conoscendo una fase particolarmente attiva proprio in questo periodo e quello dei videogame è sicuramente un settore di studi che sta diventando da “superfluo” (come è stato considerato in passato) sempre più irrinunciabile. L’analisi dei videogame serve per avere, in qualche misura, una visione di insieme del fenomeno e per cercare di prevedere (e magari indirizzare) eventuali tendenze future. La rapidità con cui questo nuovo medium si è diffuso è parallela e analoga ai meccanismi che caratterizzano la divulgazione tecnologica e culturale di questi ultimi anni. Tutto è accessibile a tutti2 e, di conseguenza, tutti veniamo costantemente influenzati dagli elementi con cui interagiamo. La velocità e la diffusione di un certo tipo di cultura ha permeato l’esistenza di molti. È proprio per questo che, anche se l’essenza del gioco è quella di essere giocato, è altrettanto fondamentale scrivere, parlare, pensare. Un medium che influenza le menti e più in particolare che può modificare i paradigmi cognitivi, che muta completamente il rapporto che intercorre tra il soggetto e il mondo3, non deve essere demonizzato o, peggio ancora, messo da parte e accantonato, perché considerato un medium “puerile” e inferiore (dopotutto, stiamo parlando di un gioco, ossia di un’attività che si configura come contraria, tendenzialmente, a quello che la società considera serio e proficuo, ossia il lavoro) ma deve essere studiato e compreso a fondo per individuare (e quindi di diffondere) gli strumenti critici che permettano di sfruttare completamente le sue potenzialità positive. Se in passato il videogioco è stato a volte “frainteso” e considerato un prodotto dannoso e quasi pericoloso, oggi è invece sempre più accettato, studiato, analizzato anche (e soprattutto) dal mondo accademico che lo aveva prima respinto. È stato compreso che, come nel caso di molti altri fenomeni culturali e sociali, non è il videogioco in sé ad essere nocivo, non è il prodotto, ma è l’uso che di questo prodotto si fa.5 Il fatto che un fenomeno sia nuovo non deve costituire un ostacolo, anzi, dovrebbe essere un ulteriore stimolo. Tutto quello che nasce oggi e che non è mai stato preso in esame in precedenza può essere analizzato ampiamente, in modo molto proficuo e produttivo proprio perché è possibile osservare in prima persona l’evoluzione del fenomeno. La ormai “vecchia” difficoltà di accettazione (e anche lo scarso gradimento di alcuni nei confronti dei videogiochi) è stata lentamente accantonata in favore di un’analisi il più obiettiva possibile. Non si tratta di stabilire i propri “gusti personali”, quanto di cogliere e comprendere un trend culturale innegabile, con i suoi aspetti sia positivi che negativi.
Il videogame è un fenomeno intellettuale e sociale travolgente, nato in un preciso momento storico-culturale e da questo momento fortemente influenzato. È anche, però, un fenomeno che ha un impatto e un’influenza sulla stessa cultura che lo ha generato, e la modifica, e la fa crescere. Lentamente, da spettatori “passivi” gli utenti si sono trasformati in “figure interattive” facenti parte di un complesso sistema formato da uomo, tecnologia, informazione.
Tutto questo per trarre una conclusione anche abbastanza ovvia, forse, ma sicuramente meritevole d’attenzione. L’uomo e la macchina interagiscono ormai da anni (e, se consideriamo la tecnologia in senso assoluto, da secoli) e questa interazione è sempre stata varia e molteplice. L’essenza più vera e autentica di questo rapporto, però, si può ritrovare nel processo di gioco e nel processo creativo. L’uomo, quindi, interagisce con la macchina e, in questa performance, in questo “evento”, cerca di esprimere se stesso. Parallelamente, però, questa interazione modifica l’uomo e la consapevolezza che ha di sé e cambia i suoi paradigmi concettuali e cognitivi. La spirale, allora, continua: l’uomo, influenzato da se stesso e dalla macchina, inventerà nuovi rapporti, nuove performance e nuovi eventi per confrontarsi con la tecnologia in modo sempre originale.
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Note
1 Quando mi riferisco ai giocatori, quando utilizzo i termini “noi”, “nostra”, mi riferisco quasi esclusivamente alle popolazioni appartenenti ai paesi industrializzati che sono stati investiti negli ultimi decenni dalla cosiddetta Rivoluzione Digitale. Quindi le considerazioni riguardanti i media digitali (e in particolare i videogiochi,) si riferiscono soprattutto a questa “parte di mondo”. Altre considerazioni che verranno fatte in seguito (v. cap. 2 e cap. 3) riguardo al gioco e ai meccanismi ludici in generale sono invece applicabili anche a culture diverse. ^
2 In realtà il discorso che riguarda l’accessibilità all’informazione è più complesso: esiste e continuerà ad esistere molto a lungo, purtroppo, un digital divide, ossia un divario netto che cresce sempre di più tra chi può accedere alla tecnologia dell’informazione e chi invece no (per diversi motivi, che possono essere disabilità fisiche o problematiche socio-culturali). ^
3 Per approfondire l’argomento si segnala S. Turkle, The Second Self: Computers and the Human Spirit, Haper Collins, 1984. ^