1.1.1 Il videogioco, questo sconosciuto

“A video game is a game played using
an electronic device with a visual display.”1

La definizione data dalla Wikipedia per il termine “video game” è concisa e molto chiara: il videogioco è un gioco che si effettua utilizzando strumenti elettronici e che può essere visualizzato su uno schermo. In realtà questa descrizione non può soddisfare nemmeno il più inesperto dei giocatori. Tecnicamente, forse, può essere accettabile descrivere un videogioco in questi termini, ma culturalmente, emotivamente anche, questa definizione è a dir poco parziale e riduttiva. D’altra parte, come già accennato, definire un prodotto culturale così complesso in poche parole è impossibile. Mark J. P. Wolf, nel suo testo The Medium of the Video Game afferma che “Defining the limits of what is meant by «video game» is more complicated than it first appears”.2 In un certo senso, il videogioco è un modo informale e innovativo per visitare e conoscere nuove realtà, per acquisire informazioni e abilità, per sfogare impulsi più o meno primordiali, per esprimersi, per imparare. Un videogioco è un’occasione di evasione dalla realtà e, contemporaneamente, è un modo per osservare la realtà con occhi (e cervello) diversi. È un divertimento, certo, un passatempo. È un intrattenimento come possono esserlo un libro o un film. Anche un libro e un film possono costituire una “piacevole pausa” dalla realtà quotidiana. Esattamente come un libro o un film, però, anche il videogioco può essere non solo un momento di svago e distrazione, ma trasformarsi in una “situazione” culturale che implica apprendimento, riflessione, scoperta, analisi, comprensione e interiorizzazione.

Il videogame è nato come pura e semplice sperimentazione tecnologica. Il primo esemplare di “progenitore” di un videogioco è l’ormai famoso Tennis for two, sviluppato nel 1958 per oscilloscopio. In sé, questo curioso giochino elettronico non significava molto. Non aveva una trama, non era complesso, non aveva “significati nascosti”, nessuna particolarità di sorta. Era un esperimento puramente tecnico effettuato su un macchinario il cui scopo era ben lontano da quello del gioco (l’oscilloscopio, appunto). Due rettangoli e un quadratino erano diventati due racchette su un campo da tennis che si sfidavano a colpi di diritto (non esisteva neppure il rovescio). Poco importava che la stilizzazione grafica non permettesse di distinguere una figura umana, su quel campo. Il gioco c’era e, da lì in poi, sarebbe stato una parte integrante (e, ultimamente, quasi preponderante) della tecnologia. Se infatti narratologicamente e tecnologicamente Tennis for two non aveva importanza alcuna (era semplicemente una prova, un passatempo realizzato con i mezzi allora a disposizione, per testare le potenzialità della macchina) in realtà culturalmente era un balzo in avanti da giganti: era infatti un esempio basilare di riconfigurazione e di simbolizzazione dello spazio virtuale.

Fondamentalmente, tutto lo spazio virtuale è simbolico: il fruitore di un computer comunica con la macchina per mezzo di un linguaggio artificiale, fatto di simboli che egli è in grado di codificare e che la macchina è in grado di tradurre. La virtualità in generale, fondamentalmente, è una convenzione. Tutti i linguaggi, a ben vedere, lo sono. Il videogioco diventa una sorta di “interfaccia” di comunicazione tra il modello concettuale dell’uomo e quello della macchina. L’essere umano può imparare e interagire con il computer in tanti modi, ma sicuramente quello del gioco resta un canale privilegiato poiché il gioco è un elemento che accompagna l’umanità da sempre. Prima di qualunque altra forma culturale esisteva il gioco.3 Il fatto che l’elemento ludico sia riuscito a permeare l’ambito tecnologico così velocemente è un’ulteriore dimostrazione di come esso sia imprescindibile e di come sia affine e vicino alla sensibilità umana. Nel momento in cui la convenzione seria viene “contaminata” dall’elemento ludico, né l’uomo né la macchina saranno più gli stessi.

Il videogioco è allora una delle tante parti che compongono la “rivoluzione” che abbiamo vissuto in questi anni. È solo una delle manifestazioni culturali della Rivoluzione Digitale, ma probabilmente è anche la più pervasiva e la più permeante. Come altre forme di espressione creativa (l’arte multimediale, i film interattivi, la database narrative, ecc.) nate dall’unione di tecnologia e sperimentazione artistica, il videogioco si è fatto inconsapevole portatore dei modelli mentali e culturali che hanno preso piede e che si sono sviluppati negli ultimi quarant’anni. Invece di essere considerato come l’appendice trascurabile e giocosa di un fenomeno culturale serio, il videogame deve essere visto (ed è proprio quello che sta succedendo) come il portavoce di una tendenza che travolge tutto e tutti (almeno nei paesi toccati da questo tipo di trasformazione sociale).

Oltre a queste riflessioni di carattere generale (molte altre se ne potrebbero fare, a seconda delle prospettive di analisi intraprese), è necessario cercare di definire e delimitare il videogioco.

“L’idea di videogioco si sviluppa a partire dal desiderio
di manipolare le immagini riprodotte sullo schermo”.

Con queste parole si apre il saggio di Francesco Alinovi “Serio Videoludere”4, che traccia una panoramica generale ma ben precisa su cosa si intenda per videogioco.

“(…) il videogioco permette un tipo di interazione più denso, che riguarda la manipolazione della dimensione spaziale, grazie alla possibilità di modificare le relazioni tra gli oggetti e tra gli oggetti e l’ambiente all’interno di uno stesso contesto narrativo. E quando si parla di contesto narrativo si intende non tanto una “storia” quanto un microuniverso fatto di regole e modelli fisici/dinamici”.5

Due espressioni fondamentali che Alinovi include in questa definizione del videogioco sono “interazione” e “contesto narrativo”. Questi due elementi sono sempre stati alla base (insieme all’ovvia presenza di tecnologia e interfaccia video) del videogioco fino ad oggi conosciuto. Sono proprio l’interattività e il contesto, inteso come “piccolo mondo dotato di una propria coerenza e coesione «testuale»”6 a differenziare il videogioco da altri media visivi come il cinema o la televisione. Bisogna dire che, in un percorso di evoluzione così rapido come è stato e come tuttora è quello della cultura digitale, il videogioco, pur mantenendo alcune caratteristiche di base, ha subito delle trasformazioni tali che la sua forma originaria è lontanissima da quella attuale. Questa evoluzione del videogame è ben spiegata da Alinovi:

“È possibile ricondurre il processo evolutivo che ha portato il videogioco da semplice esercitazione tecnologica a mezzo d’intrattenimento di massa a quattro tappe fondamentali, che possiamo riassumere sotto altrettanti termini ombrello: manipolazione, narrazione, ambiente e emozione.”7

Fermo restando che il videogioco non è solo una forma di intrattenimento, ma ha una vera e propria influenza culturale (paragrafo 1.2) e permea la quotidianità di chi ne fruisce, la divisione in tappe effettuata da Alinovi è pertinente e funzionale per un inquadramento generale di questo medium poliedrico, che ha saputo re-inventarsi, crescere e cambiare nell’arco di nemmeno mezzo secolo.

La prima fase, quella della manipolazione, corrisponde alla fase di sperimentazione tecnologica pura e semplice volta alla scoperta delle potenzialità delle nuove macchine.

Tennis for two (W. Higinbotham, 1958) e i primi esperimenti di «palla rimbalzante» non rappresentano altro che semplici divertissement di seriosi ricercatori di laboratorio, test effettuati per verificare le capacità di calcolo dei primi elaboratori. In questo caso l’aspetto ludico risiede anzitutto nella fase stessa di programmazione, ovvero nell’utilizzo, per l’appunto giocoso, del calcolatore (…)”.8

Quindi, l’elemento ludico iniziale è timido, nascosto, implicito per così dire. Coinvolge più la realizzazione del gioco che la sua fruizione. All’inizio non è tanto il videogame a essere realmente al centro dell’attenzione, ma è la tecnologia stessa, con tutte le sue potenzialità e le curiosità da scoprire.

In seguito a questa scoperta folgorante, ossia che la tecnologia (come qualunque altro prodotto umano, in effetti) può configurarsi sia sotto forma seria che sotto forma ludica, “appare chiaro che il legame tra tecnologia e forma ludica si rivela indissolubile”.9 Il passo successivo è quindi quello della narrativizzazione del videogioco.

“Determinati stereotipi narrativi si legano ad altrettanto stereotipate strutture di gioco: la fantascienza offre le coordinate alla categoria degli sparatutto, il mondo delle favole si riempie di piattaforme e i film di arti marziali si tramutano in picchiaduro, mentre lo sport, quello filtrato dal televisore, detta le coordinate per lo sviluppo di svariate trasposizioni digitali delle diverse discipline”.10

Accade quindi che, nonostante la tecnica utilizzata (la grafica, i suoni, ecc.) rimanga ancora basilare, la storia e i personaggi, in breve, la narrazione, comincino a prendere forma e a diventare un elemento centrale della ludicità elettronica. Come sottolinea Alinovi, in Space invaders (Taito, 1978) il modello di gioco è ancora vicino a quello di Tennis for two, ma il messaggio che deriva dal videogame è diverso, in quanto il giocatore ha “una missione” e quindi deve completare un percorso narrativo che lo può portare alla salvezza o alla morte.

Attualmente, una delle questioni più difficoltose affrontate dai Game Studies è proprio quella del rapporto tra narrazione e videogioco. È “sotto processo” la funzione che la narrazione ricopre nell’economia del prodotto videoludico e, di recente, la sua importanza è stata fortemente ridimensionata. Questo tema verrà però trattato approfonditamente più avanti (paragrafo 1.2.3).

L’ambiente ha costituito una svolta nella creazione e nella fruizione dei videogiochi.

“L’avvento del 3D porta ad una nuova fase evolutiva: viene meno la definizione di genere e assume rilievo la nozione di ambiente e di inclusione nel mondo fatto di poligoni. Come ha ripetuto più volte Jay Wilbur, uno degli autori di Doom, (id Software, 1993): «Noi non creiamo storie. Creiamo mondi.»”11

È stato anche a causa di questo cambiamento che l’elemento narrativo è stato completamente rivisto. Il fascino dell’esplorazione in prima persona, della creazione di un avatar in grado di muoversi in un ambiente ricostruito o la visione in soggettiva dei movimenti di un personaggio interpretato in soggettiva dal giocatore sono diventati lentamente centrali nell’esperienza di gioco. La trama narrativa smette di essere l’elemento cardine: certo, essa mantiene tuttora una discreta importanza (senza, infatti, non esisterebbe l’occasione di gioco) ma il vero “godimento” si può individuare nella libertà d’azione e di esplorazione (seppur limitata) concessa al giocatore. Più che a una narrazione letteraria, il videogioco comincia ad avvicinarsi al cinema e ad assimilare alcuni elementi tipici del linguaggio cinematografico.

L’ultima tappa, secondo Alinovi, percorsa dal medium del videogioco finora, è quella dell’emozione. “Creato il micro-universo digitale, il passo successivo consiste nel popolarlo di creature dal comportamento complesso e imprevedibile”.12 I personaggi dei videogiochi sono andati evolvendosi, nel corso del tempo, e la loro caratterizzazione psicologica si è affinata sempre più. Si pensi, per esempio, a Pac-man, la famosissima pallina gialla che doveva completare dei percorsi labirintici evitando i fantasmi che la inseguivano. Si pensi, invece, poi, a personaggi come quelli che il giocatore incontra, per fare due esempi, in Monkey Island e la relativa saga, o in Syberia (videogiochi appartenenti al genere delle avventure grafiche): sono ottimamente caratterizzati, conosciamo le loro abilità, i loro limiti, durante la partita impariamo cosa amano, cosa non sopportano, cosa sono e cosa non sono in grado di fare. Seguiamo la loro vicenda e i loro “sussulti emotivi” con partecipazione, non solo per sapere “come andrà a finire” ma con la voglia di farci coinvolgere emotivamente da loro come se fossero dei personaggi reali. Anche alcuni protagonisti di first person shooter, come Gordon Freeman, personaggio principale di Half Life o Lara Croft di Tomb Raider o ancora Tommy Vercetti di GTA Vice City, sebbene non riccamente caratterizzati come i precedenti, sono comunque ben delineati e chiaramente tratteggiati.

Per effettuare una panoramica più esauriente del prodotto videoludico sarebbe necessario parlare a fondo anche dei meccanismi su cui si basa e che lo regolano. Essendo impossibile affrontare un argomento di tale portata in questa sede, si rimanda al saggio di Ivan Fulco “Lo Zero Ludico”13, che riporta una scomposizione sistematica e precisa del medium videogame e che analizza i vari piani (quello ludico, quello narrativo, l’intersezione tra i due, e così via) con cognizione di causa e precisione. Accenniamo soltanto ad una sommaria strutturazione della meccanica tipica di tutti i videogame. “Per meccanica di gioco s’intende l’insieme degli elementi/meccanismi per mezzo dei quali può svilupparsi l’azione di un videogioco”.14 Gli elementi individuati sono cinque, ossia: lo stato iniziale, lo stato obiettivo, gli strumenti, le condizioni e il pattern. La meccanica di gioco descritta da questi cinque elementi è assolutamente elementare e lineare e proprio per questo si adatta a qualunque tipologia di videogame, dallo first person shooter all’avventura grafica, dal gioco di simulazione al gioco di ruolo. I primi quattro elementi, stato iniziale, stato obiettivo, strumenti e condizioni sono definiti a priori dai programmatori. Il pattern è invece il percorso individuale che ogni giocatore arriverà a “creare” utilizzando gli altri quattro elementi. Tutti i videogiochi, dai più semplici ai più complessi, dai più recenti ai più datati si basano su questo tipo di struttura.

Mantenendo quindi una meccanica più o meno fissa e stabile, il videogioco si è evoluto partendo dalla sperimentazione tecnologica pura e semplice per arrivare fino al piacere di una narrazione sommaria e semplificata, fino ad arrivare alla creazione di ambienti virtuali da esplorare e quindi alla realizzazione di personaggi, tipi e caratteri in grado di coinvolgere il più possibile il giocatore. Dalla tecnica si passa dunque al sentimento, dall’asettico tentativo di testare le potenzialità di un calcolatore si arriva a forzare il confine che divide il gioco dall’emozione individuale.

È proprio in questo contesto che si inserisce, sconvolgendolo, In Memoriam, il videogioco preso in analisi. Pur rispettando i cinque elementi cardine elencati sopra, questo videogame modifica il meccanismo di gioco facendo mischiare l’ambito ludico con quello reale. Per molti aspetti, questo videogioco assomma e racchiude in sé elementi caratteristici di numerose forme videoludiche a esso precedente. Da un altro punto di vista, però, segna nettamente una tappa ulteriore rispetto alle quattro elencate finora: dopo la componente emotiva, che coinvolge un giocatore comunque ancora consapevole di trovarsi davanti a un gioco ben delimitato (spazialmente, in quanto la fruizione avviene solo nell’interfaccia di gioco, e temporalmente, perché il gioco si attiva quando il giocatore lo decide), subentra la componente performativa, in cui il giocatore (attenzione, il giocatore, non il personaggio del gioco) deve portare a termine dei task e in cui il confine tra realtà quotidiana e momento di gioco diventa veramente labile. Potremmo chiamare questa ulteriore tappa la performatività e quello che intendo mostrare parlando di In Memoriam è che il gioco sta subendo, per l’ennesima volta, un cambiamento, una riconfigurazione, un’evoluzione, e si sta avviando a permeare la vita quotidiana più di quanto già non faccia attualmente. L’interazione e la performance vengono infatti poste al centro dell’esperienza ludica. In Memoriam costituisce un prodotto emblematico nel panorama videoludico attuale perché estremizza l’interattività tra media digitali e giocatore e pone l’accento sulla performance di quest’ultimo. L’interattività non è più un elemento accessorio: se in passato era possibile affrontare dei giochi sfruttando in modo minimo l’interazione che la tecnologia metteva a disposizione, con In Memoriam i processi cambiano. La meccanicità di movimento non è più sufficiente per avanzare nella partita (certo, esistono schermate più classiche in cui il giocatore deve risolvere puzzle meccanici, ma, nel complesso, questo videogioco sperimenta canali interattivi del tutto nuovi per il panorama videoludico commerciale). Senza una partecipazione attiva non solo dal punto di vista pratico e manuale del giocatore, ma anche dal punto di vista cognitivo e intellettivo il gioco non può proseguire.20 Inoltre, se in passato la performance era legata unicamente all’ambiente di gioco, al mondo ricreato sullo schermo, ora le cose stanno cambiando. Il risultato da raggiungere per terminare il gioco è sempre lo stesso per tutti i giocatori, ma i percorsi (i pattern di cui parla Fulco) e soprattutto i mezzi messi loro a disposizione sono molto più ampi e meno limitanti. Lo scopo di In Memoriam (e anche di altri videogiochi di ultima generazione), non è più unicamente quello di ricreare un micro-mondo virtuale.

“Già i primi videogame trasportavano chi giocava in micromondi computerizzati dove le regole erano chiare e precise. Conoscere un gioco richiedeva la decifrazione della sua logica, la comprensione dell’etica di chi l’aveva progettato e il raggiungimento di una comunione mentale con il programmatore dietro di esso. (…) In questo senso, i primi videogame erano oggetti di transizione; pur permeando un certo tipo di trasparenza, essi anticipavano i requisiti psicologici propri di quella che diventerà la cultura della simulazione. I videogiochi attuali, invece, sono diventati più complicati e «opachi». Essi trasmettono l’idea di far parte di un luogo che, anziché analizzato, deve essere abitato, nel senso che «nei videogame si impara ben presto che per imparare a giocare bisogna giocare ad imparare»”.16

La simulazione della realtà è diventato quindi il punto cardine intorno a cui ruotano i videogiochi. Certo, un modo per ricostruire la realtà è quello di ricreare mondi graficamente sempre più dettagliati, attendibili, precisi, in modo tale che l’occhio umano noti sempre meno la differenza tra il virtuale e il reale, ed è quello che sta avvenendo: molti prodotti di successo si basano infatti sul realismo grafico e dei meccanismi di gioco (per esempio, vari prodotti di simulazione, come la serie di Fifa, Flight Simulator, persino i first person shooter continuano a potenziare questo aspetto di immersione e realismo visivi). Un altro modo (e questo è proprio il caso di In Memoriam) però, probabilmente più efficace per simulare la realtà è quello di creare un contesto per la fruizione del videogioco che sia importante tanto quanto il videogioco stesso, e sfruttare elementi reali, non solo virtuali, per permettere al giocatore di proseguire nella partita. È questo il significato di performatività videoludica: dopo il tentativo iniziale di creazione di una realtà virtuale che cercava di realizzare l’immersione del giocatore per mezzo del coinvolgimento sensoriale (i sensi maggiormente coinvolti, alla fine, erano la vista e l’udito), ora si sta sperimentando un’altra strada, ossia quella di trasferire elementi di gioco nel reale, fare “evadere” il videogame dallo schermo del computer e costringere il giocatore a riconfigurare la propria realtà secondo nuovi schemi ludici. Il videogioco, che fino ad ora ha influenzato in modo “implicito” e anche piuttosto discreto la nostra esistenza, relegato ai momenti di svago, cerca invece di insinuarsi nella quotidianità in modo esplicito, trasfigurando gli oggetti e gli strumenti di uso quotidiano (questo discorso è approfondito nel paragrafo 2.2).

Questo processo di lento (e probabilmente inesorabile) sconfinamento del gioco nella realtà quotidiana non riguarda solo il prodotto ludico in sé (e quindi le sperimentazioni che lo caratterizzano): si estende anche, in generale, ad altri ambiti sociali e culturali. Il videogioco sta insomma espandendo il suo influsso al di là del momento di gioco, nel senso che anche la cultura ha cominciato ad essere modificata e influenzata da questo medium neonato. Le modalità attraverso cui questo processo sta avvenendo sono varie e molteplici.

Prosegui con 1.1.2 Videogioco, pop culture, influenze artistiche

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Note

1 Definizione tratta dall’enciclopedia on-line Wikipedia (informazione consultabile presso http://en.wikipedia.org/wiki/Videogame). ^

2 M. J. P. Wolf, The Medium of the Video Game, University of Texas press 2001, p. 14. 19. ^

3 La questione legata all’importanza del gioco nella cultura e nella civiltà viene affrontata nel Capitolo 2, paragrafo 2.2. ^

4 F. Alinovi, “Serio videoludere”, in M. Bittanti, Per una cultura dei videogames, Edizioni Unicopli, Milano 2002. ^

5 Ibid., p. 7. ^

6 Ibid., p. 8. ^

7 Ibid., p. 8. ^

8 Ibid. ^

9 Ibid. ^

10 Ibid., p. 9. ^

11 Ibid., p. 8. ^

12 Ibid., p 10. ^

13 I. Fulco, “Lo zero ludico”, in M. Bittanti, Per una cultura dei videogames, Edizioni Unicopli, Milano 2002. ^

14 Ibid., p. 51. ^

15 Questo tipo di interazione attiva e potenziata non è tipico solo di In Memoriam, ma appartiene anche ad altri generi, come per esempio a quello delle avventure grafiche. Come verrà spiegato però nel paragrafo 2.2, In Memoriam unisce tanti elementi che caratterizzano altre forme e generi ludici e li trasforma, li riconfigura, fino a creare un ambiente di gioco totalmente immersivo, sia da un punto di vista meccanico-sensoriale sia (soprattutto) intellettivo-cognitivo. ^

16 G. Pecchinenda, Videogiochi e cultura della simulazione. La nascita dell’homo game, Editori Laterza, Roma-Bari 2003, p. 90. ^

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