Nope

Inizio dicendo che amo Jordan Peele. Questa non sarà una recensione del film, farò decine di spoiler e non sarò minimamente obiettiva perché le opere di questo regista mi parlano in maniera viscerale.
Fin da Get Out e Us, l’inquietudine surreale che provo quando guardo un film di Peele è avvolgente e totale e i retropensieri che mi lascia sono infiniti.

Lo ripeto, attenzione: l’articolo è pieno di spoiler!

Trailer e mini-intro

Trailer ufficiale in inglese – perché i film vanno guardati in lingua originale, grazie.

Quindi c’è qualcosa che non va nel cielo e i protagonisti devono capire cos’è. Non vi racconto la trama – raramente lo faccio, guardate il film – ma voglio invece parlare dell’enorme e profonda metafora che il film nasconde. Che Jordan Peele racconti storie elevated horror è risaputo: parte da un orrore contingente, molto pratico e reale, per nascondere una feroce critica sociale, spesso incentrata sulla condizione delle persone afro-americane, sul razzismo che permea la società in ogni suo ambito e sulla recente strumentalizzazione che la comunità nera subisce quando qualcuno dall’esterno decide come affrontare il problema1.

In realtà, parlerò di una delle metafore di questo film, perché la storia di Jordan Peele contiene livelli di lettura estremamente stratificati e variegati e parla a ogni spettatore anche in base al proprio vissuto personale, alle ambizioni, ai sogni che ci caratterizzano individualmente.

A me, ad esempio, Nope ha parlato di cosa significa fare cinema, della maledizione ineluttabile che questo desiderio porta con sé.

In che senso una metafora sul cinema?

I protagonisti sono vincolati al mondo del cinema da una tradizione familiare: i loro antenati sono stati infatti i primi addestratori di cavalli per il cinema della storia. Un’eredità pesante da portare sulle spalle, in un’epoca in cui esistono i VFX2 e in cui tutto è più semplice e sicuro con un cavallo di legno verde anziché con una bestia in carne e ossa.

E qui inizia la metafora: entriamo in sintonia con una “meravigliosa” generazione che si trova sulle spalle una legacy da tramandare, ma che vive in un contesto sociale, politico, economico, tecnologico e artistico completamente diverso da quello in cui hanno proliferato le generazioni precedenti. Un peso enorme che si manifesta in un fratello e una sorella (OJ e Emerald Haywood) caratterialmente agli antipodi, ma che incarnano entrambi il profondo disagio di vedere la propria storia sfumare nei debiti e nella povertà. Io loro due li ho amati alla follia praticamente subito. OJ goffo, silenzioso, timido e riflessivo. Emerald esuberante, intraprendente, estroversa e impulsiva. Mi immaginavo di vivere lì con loro, magari nella fattoria accanto, e di trovarci la sera dopo una dura giornata di lavoro per bere una birra. Invece no, perché la morte del padre li trasforma in adulti improvvisati, che si rendono conto della montagna di debiti che devono scalare e del totale isolamento in cui vivono: nessuno li conosce, nessuno li cerca, perché sono figli cresciuti nell’illusione che al mondo servisse ancora “quella roba lì” e invece non è così.

Il cinema è nel loro passato, ma il cinema è anche il loro presente: infatti, per un caso fortuito, OJ ed Emerald scoprono qualcosa di bellissimo e ineffabile, di così meraviglioso che va condiviso e raccontato e devono essere loro a immortalarlo per primi, così da diventare famosi, da avere finalmente il successo che si meritano condividendo con il mondo questa visione impossibile che è apparsa unicamente a loro. È qui per me che è il film ha cominciato a parlarmi come se mi fossi mangiata dei funghi allucinogeni: a ogni cosa che avveniva a schermo trovavo un corrispettivo con quello che vivo e sperimento in prima persona quando voglio realizzare un cortometraggio, un film o anche quando voglio scrivere un racconto o delle poesie. Che sia un fardello mio o di chi scrive la sceneggiatura o dirige il film, sento letteralmente che abbiamo ricevuto un lascito e degli strumenti che ci impongono di raccontare e lo dobbiamo fare nel modo migliore possibile per onorare questo onere e onore. Dopo quasi quindici anni che scrivo storie e faccio film corti e (spero presto) lungometraggi per lavoro, mi è anche auto-evidente come il tutto diventi spesso una vera ossessione, come una volta avviato il meccanismo sia difficile staccarsene e come ogni piccolo passo avanti faccia pensare: “Ecco, ci siamo quasi, non possiamo mollare ora, ce la possiamo fare” quando in realtà probabilmente, ci mancano ancora chilometri e chilometri di strada.

Tutti i personaggi di Nope sono ossessionati: è ossessionato il cowboy Jupe, che cerca da anni di tornare in contatto con l’entità aliena che ha conosciuto da bambino. È ossessionato Antlers, il direttore della fotografia che viene ingaggiato da OJ ed Emerald per riprendere “il miracolo cattivo”, come lo chiamano loro. È ossessionato Angel, commesso del superstore locale con un ottimo spirito di osservazione, ed è ossessionato anche Ryder Muybridge, un grottesco e arrivista giornalista che compare alla fine e che vuole rubare lo scoop ai due fratelli. Ci sono ossessioni cattive, come quelle di Jupe e di Ryder, e ossessioni buone, come quelle di OJ ed Emerald, che anche nel momento di peggior sconforto pensano l’uno all’altra e mantengono fissa la bussola verso il loro obiettivo, senza mai dimenticarsi di proteggersi.

What’s a bad miracle. Hm? We got a word for that?

Una delle parole che può descrivere un “miracolo cattivo” è “film”. Mi piacerebbe sapere chi ha calcato qualche set di cortometraggio, documentario o film cosa ne pensa di questo parco personaggi, perché a me hanno ricordato in toto una troupe cinematografica. Dal produttore all’attore protagonista, dalle maestranze ai capi reparto. Un ensemble di persone che spesso non vogliono lavorare ma che devono farlo, per soldi e per fama. Invece, regista e DOP di solito sono sul set per una vera e propria vocazione o ossessione, perché non possono farne a meno, e infatti i nostri “registi” sono OJ ed Emerald, e il nostro DOP è Antlers: persone ossessionate per motivi diversi, ma ossessionate in modo puro e autentico. La loro ossessione è la loro spinta vitale, l’essenza stessa della loro sopravvivenza. Io qualche regista e qualche DOP lo conosco e sono così.

Jordan, ti ho fatto anche studiare

Ora, salire in cattedra e dare un giudizio sull’opera di Peele a livello di maturazione artistica mi pare la cosa più arrogante che posso fare, sia perché non ho nessun titolo per valutare la maturità di un regista, sia perché sicuramente Jordan Peele è ben lontano dall’aver completato il suo personale percorso di crescita. Mettendo da parte la modestia, però, mi azzardo a osservare come il nostro caro Jordan abbia raggiunto quegli invisibili standard severi che avevo deciso per lui e che ora mi fanno felice. In realtà, rivedo questa progressione in tanti dei registi che mi piacciono (Nolan, Fincher, Bigelow, Villeneuve, Del Toro, Ducournau): ogni film è un “livello” di difficoltà crescente e il linguaggio cinematografico che adottano e le storie che raccontano crescono con il crescere del loro pubblico. Si parte da livelli più “semplici”, lineari, essenziali e, con il progredire delle opere, si aumenta la complessità. Io trovo che Nope abbia sfondato la diga del semplice e si sia tuffata a pieno diritto nel mare del complesso. La complessità sta nei livelli di lettura, che sono molteplici, ma anche nel tono, che non è mai greve bensì abbina la tensione più feroce alla risata più sincera. Come il momento in cui OJ dice:

Nope. Fuck this shit. I’m out

Nope è un film di intrattenimento saturo di significato, abbinata non scontata quando l’intrattenimento viene associato necessariamente alla leggerezza spassionata.

Ora, mi sto incamminando su un campo minato, ma quello che voglio dire su questo film prevede che possa in qualche modo “esplodere” e farmi molto male. Il traguardo più grande che, secondo me, Peele ha raggiunto con questo film è di svincolare i suoi personaggi neri da tematiche legate alla critica sociale che riguarda solo gli afro-americani, e renderli personaggi che possono incarnare perfettamente altri messaggi, altre tematiche, altri traumi, altri disagi. In un percorso di differenziazione della rappresentazione nel cinema e nelle serie TV che a volte è forzato da logiche di marketing, l’approccio di Peele è puro, efficace e in crescendo. Anche se all’inizio tutto il discorso sembrava ruotare ancora una volta attorno alla marginalizzazione e allo sfruttamento della comunità nera, poi quella tematica apre la pista a tanti altri discorsi che non riguardano più solo una comunità specifica, ma tutti noi3.

Il capitalismo, il mondo del cinema di Hollywood, la strumentalizzazione dei bambini nell’intrattenimento, il devastante individualismo americano, la società dell’immagine come apparenza sostenuta da un vuoto etico: potrei continuare a lungo, e se cercate online troverete teorie, ipotesi, recensioni, analisi.

Fare cinema? Nope!

Per me, Nope riassume alla perfezione l’esperienza del “fare cinema”: chi non lo fa, pensa che sia qualcosa di teorico, puro, incontaminato, di metodico e artistico, di sacrale. Chi lo fa, invece, sa che è letteralmente una corsa contro la morte. È un insieme di azioni e situazioni che devono accadere tutte al momento giusto, nel modo giusto, e secondo la visione del regista, e la complessità sta nel numero di variabili che devono andare “bene” per ottenere il risultato desiderato.

Fare cinema significa inventarsi soluzioni artigianali per risolvere i problemi, come fanno i protagonisti nella parte finale del film per riuscire a immortalare Jean Jacket. Significa utilizzare attrezzatura che non è mai esattamente come la vorresti tu, e la devi adattare ai tuoi scopi. Significa pregare che il meteo ti assista. Che la luce si comporti come vuoi tu. Che gli attori si comportino come vuoi tu. Fare cinema significa letteralmente piegare l’impossibile per rendere possibile la visione di un gruppo di individui. Nello spirito visionario di Emerald ho riconosciuto l’anima di una regista, carismatica e irresistibile, e capace di trascinarti nel delirio. L’approccio pratico di OJ mi ha ricordato quello del produttore, che deve difendere l’incolumità di tutti, cercando però di raggiungere l’obiettivo. Il ruolo di Antlers è più che ovvio, è un DOP fatto e finito che antepone la palette colori e la temperatura della luce addirittura alla propria vita.

Io il cinema l’ho sempre vissuto così. Ho seguito il mio regista nella follia di uno shot impossibile, ho osservato il mio DOP impazzire per la luce di un tramonto che dura troppo poco per essere immortalata dalla camera. Ho svuotato dall’acqua grotte di montagna con i secchi, sono scesa in miniere, e ho sopportato giornate di freddo in location disagevoli. Tutto perché sapevo che c’era uno spettacolo che le parole erano insufficienti a raccontare, alla fine di quell’avventura.

Questa sarà casa tua se deciderai di fare dei film nella tua vita.

Quando la casa dei protagonisti viene prima ricoperta di sangue e viscere di persone e animali e infine distrutta dal “miracolo cattivo”, io sapevo cosa significava: questa frenesia per “lo spettacolo”, questa volontà di mostrare qualcosa di eccezionale ti si ritorcerà contro e arriverà a portarti via tutto quello che consideri sicuro, ti toglierà i punti di riferimento, ti lascerà vulnerabile come poche altre cose al mondo. E però non potrai fare a meno di farlo e rifarlo e cercare di nuovo quell’avventura, quelle sensazioni, quel pericolo. Alcuni, addirittura, penseranno che si vive veramente solo quando ci si trova sul set, e che tutto il resto del tempo è un inutile aspettare.

Questo è Nope per me e questo è fare cinema. Qualcosa davanti alla quale dovresti solo dire Nope e scappare, e invece ci caschi ogni volta.

Note

1 Uso il termine problema non a caso, parafrasando Borges quando scriveva “Parlare del problema ebraico è postulare che gli ebrei sono un problema“. ^

2 Non a caso, gente come noi, cioè chi è considerato un nuovo arrivato nel mondo del cinema, viene sempre guardata con disprezzo e con diffidenza, perché sta in qualche modo distruggendo qualcosa di sacro, storico, che si è “fatto così” per generazioni e generazioni. Peele però non è ottuso, e non incentra affatto la sua critica su vecchio/nuovo. ^

3 E attenzione, colpo di scena: le battaglie delle varie comunità vessate e marginalizzate riguardano già tutti noi. Giusto per ribadirlo. ^

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