Eccoci qui, al primo anniversario di questa clausura bizzarra. Per due giorni, mi sono presa il tempo di non fare nulla. Il tempo della lentezza. Oggi scrivo perché l’esperienza nella Terza Porta è stata intensa e ho dovuto interiorizzarla. Oggi scrivo anche perché non credo nelle ricorrenze, ma è passato un mese esatto dal Giorno 0 e da quando tutto questo è cominciato. E come posso non fare il punto della situazione dopo queste quattro settimane, in cui è cambiato tanto, sia fuori che dentro? Come posso capire cos’ho perso e cos’ho guadagnato, in base al principio dello scambio equivalente alla base dell’alchimia?
Guardandomi indietro, posso dire che la prima settimana è stata dura, durissima. Per motivi su cui mi arrovellerò a lungo, ho provato un disagio incredibile. Mi sentivo sfasata, oppressa, rinchiusa. In trappola e nello stesso tempo in pericolo, anche se sia noi che le nostre famiglie non abbiamo mai affrontato momenti di vera difficoltà, malattia o problematiche concrete. Ero effettivamente succube dello “spirito del tempo”, del martellamento mediatico, delle conferenze stampa alle 23.00, dei numeri di contagiati e morti che crescevano impietosamente e, ovviamente, del fattore “novità”. Era tutto nuovo, era tutto inconcepibile. Nello spazio di un decreto legge (necessario e giusto, a mio parere) erano state completamente congelate le modalità di vita che conoscevamo fino a quel momento, ci è sembrato di ricevere gli arresti domiciliari, di andare in guerra. E in guerra però ci sono andati solo alcuni di noi, e cioè tutti quelli che lavorano nella sanità, nella logistica, nei servizi essenziali, che sono dovuti rimanere a contatto con il virus, che si sono ammalati, che spesso sono anche morti.
Nel corso della seconda settimana della nostra clausura, però, è scattato qualcosa: i rumori inquietanti in bagno, le ipotesi, la scoperta del tunnel sotterraneo, l’enigma delle porte, il tempo che scorre avanti velocemente, le avventure in posti così familiari e così surreali… A volte mi sembra che qualcuno ci abbia fatto un regalo. Forse però la verità è che, anche come famiglia, ci siamo assestati e alleati tra di noi. Ricordo, soprattutto nei primi dieci giorni, un fortissimo senso di inadeguatezza per tutto: non riuscivo a lavorare come volevo, nonostante i miei piani perfetti. Non riuscivo a passare del tempo “di qualità” con Leonardo, anche se mi dispiaceva vederlo abbandonato a se stesso davanti ai cartoni. Vivevo una mezza vita parallela con Giacomo, che continuava ad andare occasionalmente in ufficio, mentre io restavo nello studio di casa, e con cui non condividevo più momenti di svago, perché la sera andavo a letto esausta dai troppi pensieri. È stato quando abbiamo ricominciato a lavorare come una squadra che le cose hanno cominciato a migliorare. Innanzitutto, ho espresso i miei sentimenti: il mio senso di inadeguatezza, tristezza, frustrazione. Ho condiviso il peso con Giacomo prima, ma anche con Leonardo. Gli abbiamo spiegato che non potevamo passare giorni, settimane, forse mesi chiusi in casa insieme, noi tre da soli, senza nessuna regola, senza capire che dovevamo aiutarci a vicenda. Ci siamo dati degli appuntamenti insieme: pranzi e cene ben cucinati, momenti di gioco all’aperto, un Lego a settimana se fa il bravo, film dopo cena, due o tre volte alla settimana un giro nel prato grande dietro casa, o nel bosco o al fiume… Io ho cominciato a “lavorare” per smettere di giudicarmi ferocemente per ogni fallimento o per ogni cosa che non va come vorrei. Un soggetto che non esce al primo colpo, un upload che ci mette troppo, un budget che non mi torna, una presentazione di cui non trovo il “cuore”.
Ora, non è che siamo la famiglia del Mulino Bianco: c’è sempre tanto da fare, però posso dire sicuramente che abbiamo trovato un equilibrio e che ci sentiamo tutti meglio di quando tutto questo è cominciato. Leonardo è una fonte inesauribile di divertimento, idee, creatività, storie, avventure, giochi. A volte fatico a stargli dietro, perché magari ho solo voglia di spegnere il cervello, o di parlare tra adulti, o di fare altro. Le avventure nelle porte sono strane: sono molto intense nel momento in cui le viviamo, ma restano poi nella nostra mente come uno strano ricordo sbiadito, un sogno di cui si trattengono solo dei brandelli al risveglio. Io cerco di scrivere tutto, perché sento che un giorno sarà utile avere una cronaca di tutto questo, magari ci farà anche piacere rileggere di questo periodo, chissà.
Certe cose che vengono dalle Porte ce le portiamo anche qui: l’odore della primavera che arriva, di fiori e di nettare, il profumo di terra quando pioviggina un po’ e poi smette, l’aria fresca, il cielo stellato come non lo abbiamo visto prima… Mancano le persone, manca la libertà di visitare le montagne, o il mare… Quanto mi manca il mare…
A ogni modo, in questi giorni abbiamo trovato una bellissima base segreta nel prato dietro casa: l’erba è alta, c’è una piccola scarpata tra gli alberi, verso il fiume, e io mi metto lì con una grande coperta e un libro, con l’erba alta tutta intorno, e mi ricorda dei nascondigli nei prati della mia infanzia. Leonardo invece gioca ai pirati, a fare missioni in fondo alla scarpata, con rami secchi come armi e liane e tronchi come acerrimi nemici. Sempre Leo ha avuto un altro colpo di inventiva e ha costruito una “nave” ai piedi del nostro ulivo domestico, in cortile. Lì viviamo incredibili avventure di pirati e spie, in cui io interpreto alternativamente il pirata Spugna, stupido e tontolone, oppure il Capitano della nave, e lui invece è sempre la Spia, che deve andare in missione, recuperare mappe, trovare tesori, e salvare la situazione.
A volte mi annoio a morte, ma a volte invece mi diverto un sacco. Insieme, ad esempio, abbiamo disegnato questa fantastica mappa del tesoro: chi conosce casa nostra, riconoscerà tutti i punti salienti del nostro giardino (e anche il nostro gatto).
Posso dire di stare bene? Quello mai. Ma posso sicuramente affermare di sentirmi in uno strano stato di grazia, in cui tutta questa sospensione ha fatto spazio per pensieri, tempo condiviso, idee, tentativi. Sono abbastanza fiera anche perché è un mese ininterrotto che scrivo: non solo qui, su questo diario, ma anche per lavoro. Sono finalmente riuscita a mettermi al lavoro su progetti che dovevo affrontare da tempo. E tra poco anche il libro dei Draghi comincerà a prendere forma! Sono soddisfatta di quello che faccio? Assolutamente no. Mi giudico sempre troppo, mi critico ferocemente, mi auto-demoralizzo. È una lotta infinita, ma ci sono giorni in cui sento di mettere a segno qualche stoccata decisiva, altri in cui vengo ferita, altri ancora in cui devo guarire e leccarmi le ferite.
È incredibile pensare di poter vivere un momento storico così. Con la mia famiglia. In questo posto che sembra uscito da un film di Miyazaki. E invece è tutto vero. Quando mi vedo “qui e ora”, quando mi guardo intorno e faccio il punto su quello che abbiamo costruito insieme, con Giacomo, delle persone che siamo, del punto in cui troviamo nella nostra vita, mi rendo conto che forse qualcosa di buono l’abbiamo fatto e che le nostre scelte non sono poi così scellerate. Se guardo mio figlio che ogni giorno si sveglia cantando e si mette a giocare, a inventare, se mi soffermo sulla sua forza creativa, sulla sua immaginazione, se vedo con che tranquillità va a letto la sera, allora mi viene davvero da pensare che forse non ho sbagliato proprio tutto.
Però, nell’ombra ad aspettarmi, c’è il principio dello scambio equivalente, pronto a chiedermi il suo dazio. Nascosta da qualche parte, invisibile ai più e forse anche a me, c’è una clessidra e tutta la sabbia che vedo comparire nella sfera inferiore sta svanendo lentamente da quella superiore. Lo scambio equivalente, alla base dell’alchimia e della trasmutazione, vale anche negli aspetti più profondi della nostra vita. Nulla ci viene concesso gratuitamente, ogni cosa ha un costo. Un costo che viene pagato in ore che si trasformano in giorni, ad esempio, quando siamo nelle Porte del Primo Tunnel. O un costo che viene pagato in anni, quando cerchiamo di crescere un figlio e di fare del nostro meglio per lui e per noi, occasionalmente. Cosa ci guadagniamo, da tutto questo? Non lo so. A volte, egoisticamente, penso che il prezzo sia troppo alto. Altre volte, invece, penso che ho più di quanto mi merito. E in quest’ambivalenza mi rigiro la notte quando non riesco a dormire, o quando verso sera mi prende quella morsa al petto e non so cosa sto facendo, se tutto questo ha un senso.
L’unico mio pensiero, per andare avanti, è cercare di scoprire cosa ci sia dietro le altre porte e tracciare una mappa sensata di quello che stiamo vivendo. Solo alla fine potrò sapere se il prezzo pagato per soddisfare il principio dello scambio equivalente e vivere quello che stiamo vivendo sarà stato bilanciato oppure no. Solo alla fine potrò sapere se il prezzo era troppo alto.