Pari opportunità

Da qualche tempo gira uno spot di una nota marca di pannolini che ti spiega come le differenze anatomiche tra bimbi e bimbe non si fermino all’apparato riproduttore, ma si insinuino nelle profondità  culturali dell’educazione. Quindi se sei maschio, puoi essere un avventuriero, mentre se sei femmina è meglio che tu ti faccia desiderare. Se sei maschio ti deve piacere il blu, se sei femmina il rosa. Se sei maschio puoi ambire a una vita di carriera e scoperta, se sei femmina ho già  qui pronto un bel set di pulizie per la casa tutto per te. Rosa, ovviamente.

Spero di non dover nemmeno cominciare ad argomentare quanto sia ridicola la differenziazione qui sopra, quanto sia retrograda e non solo sessista, ma biecamente consumista: ci educano, fin da piccoli, ai settori di mercato che ci preparano quando diventiamo grandi. Bigiotteria, passatempi hi-tech, vestiti, attrezzatura per lo sport, automobili, arredamento casa: dobbiamo diventare dei consumatori diligenti, perché altrimenti pensa che casino se non riescono più a sessizzare un divano, una collanina, un paio di scarpe, e così via. Saltano tutte le regole di mercato per cui la società  si è così ben strutturata, così che poi siamo noi stessi i primi a volere certe cose anziché altre, senza mai fermarci a chiederci se le vogliamo veramente o se è un percorso culturale a beneficio di qualcun altro che ci ha portato a desiderare queste cose.

Io, ad esempio, ho sempre comprato videogiochi. àˆ un’industria? Certo che lo è. Così come l’industria editoriale, l’industria alimentare, l’industria cinematografica. E però io non ho mai comprato i “videogiochi da femmine”. Comrpavo, semplicemente, i videogiochi che mi piacevano. Così come i miei romanzi di formazione non avevano un target specifico, così come i film che mi hanno cambiato la vita non erano “film da donne”. Il problema dei pannolini rosa e blu per femmine e per maschi è una delle tante tappe miliari che noi e i nostri bambini dobbiamo compiere per diventare consumatori non responsabili, per farci riempire le case di cose che non ci servono, per convincerci a lavorare 100 ore a settimana per mantenere un tenore di vita che non ha nessun senso per noi e che, invece, è la base fondante dell’economia in cui ci troviamo inseriti.

Questo è l’aspetto, da madre, che mi interessa di più: cercare in ogni modo di passare un po’ di spirito critico a mio figlio e fargli capire che se gli piace preparare il caffè e passare la scopa anziché giocare col trattore e con il trapano Berto, allora va bene così. Dopotutto, suo padre lo fa. Io lo faccio. E quindi lui ci imita. Il problema è quando anche gli adulti sono perfettamente integrati nel ciclo del consumo e quindi fanno, a loro volta, solo azioni “normali”, solo azioni che rispecchiano i modelli della pubblicità  o delle istruzioni sui prodotti (vorrei vedere un uomo che passa il mocio, una volta: in casa mia lo fa Giacomo, perché non posso comprargli un diavolo di mocio in cui ci sia un uomo sulla confezione, anziché una donna?) e quindi i figli cominciano a settorializzare le attività : la cucina è della mamma, il garage è del papà , i mestieri li fa mamma, del giardino si occupa papà , e così via all’infinito.

Certo, devo ammettere che cercare di vivere una vita normale in mezzo a tutti questi stereotipi grotteschi a volte non è facile. Perché, ad esempio, tante persone non capiscono che quando hai un figlio hai meno tempo, che sei meno disponibile “flat 24 ore su 24” e che bisogna concentrare gli appuntamenti, le chiamate, i task. Perché quando si tratta di pulire il cesso, allora c’è una netta distinzione tra maschi e femmine, mentre quando si tratta di lavorare (e, bada bene, non di guadagnare) allora no, non ci devono essere differenze di performance, di disponibilità , di focus, di workflow, di need, di push, di.

Io lotto ogni singolo giorno contro una solitudine preoccupante e contro la fatica smodata di non essere una persona con interessi “commerciabili”, con un lavoro in proprio, con difficoltà  gestionali su ogni fronte. A volte penso che sarebbe veramente più semplice se, invece di cercare ottusamente di lavorare, mi rassegnassi a fare la casalinga e la smettessi di dimenarmi per mettere a frutto competenze, passione, esperienza, e passassi la giornata a pulire casa, a stirare vestiti e a passare il mocio con l’effige di donna sulla confezione. Essere “alternativi” oggi non è fare i punkabbestia, non è fare la rivoluzione, non è prendere e partire per fare un viaggio intorno al mondo. Essere alternativi oggi è rimboccarsi le maniche e cercare di fare quello che si desidera fare, nonostante la società  remi contro questo desiderio e nonostante la tua formazione (culturale, universitaria, professionale) venga sempre messa in secondo posto se sei donna, perché “tu devi stare con tuo figlio”. Io non DEVO stare con mio figlio, io ci VOGLIO stare. Però VOGLIO anche lavorare, quindi come si fa? Con tanta, tantissima fatica, e ricordando ogni giorno che il principio che mi deve guidare è lo spirito critico, il desiderio di auto-affermazione e la passione.

Però, a volte, come in queste settimane, come in questo anno, è un percorso davvero solitario e in salita.

Didattica estrema

Nella mia vita, posso facilmente distinguere due modi diversi di imparare, davanti a cui, nel tempo, mi sono trovata.

Il primo è stato, ovviamente, il mondo ovattato e accogliente dei libri. Lo studio, la ricerca, l’elucubrazione, il vivere la vita attraverso un comodo filtro di carta. Poi anche digitale, perché i videogiochi non hanno certo avuto un ruolo secondario nella mia formazione. Nessuno sano di mente può non rimpiangere il periodo della propria vita in cui tutto avviene per filtro altrui. Oggi sei una principessa da salvare, domani l’idraulico che la salva. Ti svegli e sei un investigatore, vai a letto dopo aver ucciso mostri fantastici. Leggi poesie che ti aprono varchi su altri mondi, scrivi lettere che ti cambieranno la vita. Il filtro della lettura e della scrittura è il mio porto sicuro, il luogo in cui mi sento a mio agio, la dimensione in cui nulla di male può accadere, e quando accade stimola le corde giuste, i sentimenti giusti, non quest’ansia senza fiato che mi viene, invece, davanti alla vita vera.

La vita vera è il secondo banco di prova su cui ho dovuto imparare. All’inizio sembrava più facile, perché le attività  della vita sono sempre in numero inferiore rispetto a quelle della finzione, quindi pensavo di potermi barcamenare meglio. Mi sono però ben presto resa conto che la molteplicità  e la varietà  dei mondi di finzione è tenuta insieme da una visione superiore, da uno sguardo dall’alto che permette di organizzare e di dare un senso all’entropia. La vita è più essenziale, se vogliamo, ma totalmente senza un fine, totalmente allo sbando, totalmente imprevedibile. Senza qualcuno che la governa, senza l’illuminata mente dell’autore in grado di tirare le fila di quello che accade e di accompagnarti verso l’emozione giusta. La vita vera, per me, è stato scoprire che non sempre giocare secondo le regole porta ai risultati sperati. Che ognuno, in effetti, gioca secondo le proprie regole e, senza nemmeno farlo apposta a volte, si creano dei paradossi, degli inghippi, dei corto circuiti che ti travolgono.

La prima volta che mi sono accorta che giocare secondo le regole non serviva a niente è stato durante il dottorato. Non avevo, in realtà , capito il set di regole che mi era stato messo davanti, e ho applicato ottusamente il mio, sperando che dedizione, passione ed entusiasmo fossero abbastanza. Non lo erano nemmeno lontanamente. Anche il mio primo “lavoro d’ufficio” vero e proprio ha subito la stessa sorte: mi è stato fatto notare che la posizione che avevo sognato da tutta la vita, per cui avevo studiato, sgobbato, per cui avevo giocato e imparato, non era in realtà  il posto giusto per me. Che non facevo parte della squadra con cui sentivo di essere sbocciata, per cui avevo fatto le mie prime serate al lavoro (e poi, quante altre). Che non ero veramente adeguata, perché i miei impulsi, il mio atteggiamento erano da cavallo sciolto.

Ora, quello che sta succedendo ora ha poca importanza. Ne ha molta, in realtà , ma ne ha anche pochissima, perché nonostante le montagne che stiamo scalando, io sono sempre lì a pensare “e se anche stavolta le regole non tornassero? E se anche stavolta scoprissi, all’ultimo miglio, che ho frainteso il senso di tutto quello che stiamo facendo?”

Io voglio raccontare storie. Lo so che sembra strano detto da una di 35 anni che ha scritto qualche racconto e che ha poi seimila progetti video nel cassetto, ma che ancora non ha regalato molto al mondo, però è questo che voglio fare, raccontare storie. Storie fantastiche, tendenzialmente, in cui i personaggi si muovono in un apparente caos sormontato da regole ferree e da un obiettivo che, presto o tardi, si rivelerà  loro in tutta la sua semplicità . Quindi mi dispero ancora quando, mentre cerco di raccontare queste dannate storie, incappo in sistemi di regole sballati, che non condivido, che mi stritolano, che mi fanno mancare il fiato. Pubbliche amministrazioni, furbizie, raccomandazioni, piccolezze, prevaricazioni, finto giustizialismo. Io sono molto, molto stanca.

Come sono stanca anche di svegliarmi e avere i conati di vomito, o di dovermi chiudere in una stanza da sola all’improvviso perché ho un attacco di panico e non voglio che qualcuno mi veda così. Come sono amareggiata e disperata perché, soprattutto, non voglio che mio figlio mi veda così. Ormai sono anni che imparo nel modo più duro, e sono stanca di essere così coinvolta. Forse, se non avessi letto tutti quei libri, se non avessi giocato a tutti quei giochi, forse avrei meno aspettative impossibili sulle regole e sugli obiettivi di questa vita bislacca. Forse riuscirei a lasciarmi scorrere le cose addosso, forse riuscirei a chiudere un faldone di pratiche e di conti e a pensare che non è colpa mia, che non ho fatto niente di male, che non posso “ripetere il livello” e farlo meglio, che non c’è nessun autore onnisciente che mi ha guidato in un percorso sensato. Penserei, finalmente rassegnata, che alcune cose semplicemente non hanno un senso, che posso solo evitare di fare gli stessi errori in futuro e che posso allontanare quei vampiri emotivi che, a un’empatica come me, succhiano vita ed energia a ogni parola.

Tutto quello che ho vissuto, però, va poi a fare parte di quei momenti di felicità  spensierata e totale che ancora so provare. Non posso rinnegare tutto, non è tutto nero, non sono più dentro un buco. Diciamo che è solo una pozzanghera lungo il percorso, questo periodo fatto di doveri assurdi e di riscontri scarsi. E se riuscirò finalmente a far uscire almeno una di tutte quelle storie, da queste mani, da questa testa, allora non sarà  stato tutto vano.

Il peggior nemico delle donne

Sono le donne.

Sono quelle che ti mettono i bastoni tra le ruote qualsiasi cosa tu faccia, se appena appena sei diversa da loro. Oppure se potresti essere troppo simili. Quelle che sul lavoro arrivano tardi agli appuntamenti quando sanno che hai un bambino da andare a prendere, quelle che ti giudicano qualsiasi sia la tua scelta educativa o il tuo modello di famiglia, quelle che ti fanno le scarpe nella settimana in cui sei ammalata, quelle che la maternità  ti rende invalida tutta la vita, oppure che se non sei madre non capirai mai il vero senso della vita.

Ci sono alcune donne che ho avuto l’onore di incontrare sulla mia strada che sono cazzute, solidali, affettuose, disponibili, intelligenti, creative, devote ma anche egoiste, presenti ma non troppo. E queste sono le donne belle, quelle che mi piacciono.

Poi ci sono le donne arriviste, le donne che cercano di fare gli uomini, le donne che si schierano con tutti tranne che con le altre donne, perché così non dimostrano mai debolezze. Le donne che vengono a pranzo da te per vedere come te la cavi, ma poi rimandano per anni un invito a pranzo o a cena, perché qualsiasi cosa è più importante che passare dell’altro tempo insieme, ora che ti hanno inquadrata. Le donne che ti dicono che ti aiuteranno e poi scompaiono perché hanno altro da fare, e non ti avvisano nemmeno. Le donne che fanno parte di circoli e di congreghe e di associazioni, ma che poi non sanno avere un dialogo e sfruttano il potere per schiacciare gli altri con arroganza, e non per farli crescere con eleganza.

Quindi, non diciamoci fesserie: non mi piace la festa della donna, né mai mi piacerà , finché le donne continueranno a essere le proprie peggiori nemiche.

Amore

Bisognerebbe insegnare ai bambini a imprimersi nella mente la prima volta che si sentono l’amore. Perché, sono convinta, quella sensazione, l’amore come l’hanno conosciuto la prima volta, sarà  il motore che li spingerà  avanti nella vita, quello che li farà  sognare, che farà  prendere loro decisioni, che li spingerà  a raggiungere il limite e ad andare oltre.

L’amore è fortissimo, ti prende in contropiede, può essere per ogni cosa, per ogni persona, per ogni ricordo, per ogni luogo, per un cibo, per una musica, un profumo, per tua nonna, per degli occhi visiti in fotografia, per qualsiasi cosa davvero. L’amore, quando c’è, è forte, è fortissimo, e sovrasta tutto, perché è egoista, è egocentrico, è una macchina da sopravvivenza.

Allora io vorrei ricordare la prima volta che ho provato questo amore, totale. Non so se è stato per una persona, per una poesia, per una musica, per un’idea, per una sensazione. So solo che nelle serate di quasi primavera come questa è inevitabile che io passi il mio tempo ad ascoltare musica di vent’anni fa, a leggere poesie, ad ascoltare Charles Sagan che mi accompagna alla scoperta dell’infinito, a pensare al mio amore grande che mi aiuta a uscire dai miei buchi neri e, da un anno a questa parte, a pensare anche a un piccolo essere che adesso c’è e prima no, ed è amore concentrato.

Ma penso anche a occhi che ho visto solo in fotografia, penso a chi ha scritto le parole più belle che abbia mai letto, penso alle note di un pianoforte e a delle mani, le mie. Penso a prati e al mio cane Ulisse, penso alla mia famiglia. A volte piango, a volte rido, spesso mi sdraio a pancia in su ovunque mi trovi come a guardare il cielo, anche se in mezzo c’è un soffitto. Chissà  che diavolo ho provato la prima volta che ho provato l’amore, perché per me è questo: un guazzabuglio di cose che solo sommate e tutte insieme, come un Aleph nel mio cuore, significano gioia. Succede quasi sempre la sera. Spesso, ancora oggi che ho una famiglia tutta mia, quando sono sola. Quando arriva, devo aprire la finestra, non importa se fuori fa ancora freddo, io sento nell’aria quell’odore inconfondibile che c’è ogni anno alla fine dell’inverno, a un certo punto, quando la vita dice alla morte “Sono ancora qui, non hai vinto tu nemmeno questa volta.”.

Me ne convinco sempre di più: passiamo la nostra vita a ricercare un’epifania ancestrale, e chissà  da dove ci arriva, chissà  se l’abbiamo scelta noi o è stato un caso, chissà  se cambia, nel corso dell’esistenza, o resta sempre uguale. Per me l’amore si è arricchito, ma la sua manifestazione è rimasta sempre la stessa: intensità , sogno, poesia. Un momento che aspetto per troppo tempo, a volte, ma che quando arriva mi ricorda come sono davvero, come voglio essere, anche.

“Che sono un sovversivo, tuo sovversivo amore… Non c’è torto o ragione. àˆ il naturale processo di eliminazione…”

Persone

Ci sono persone che mi hanno profondamente deluso, nella vita.

Ci sono persone su cui so incondizionatamente di poter contare.

Ci sono persone che, dopo anni di frequentazione, non so ancora inquadrare.

 

Chi mi ha deluso, di solito, lo ha fatto per debolezza. Mi ha voltato le spalle in un momento di bisogno. Ha abbandonato la nave quando tirava una brutta aria. Ha tradito in qualche modo la mia fiducia. Si è dimostrata una persona ordinaria. Ha criticato il mio stile di vita senza nemmeno cercare di capirlo. In realtà , tutte queste persone hanno qualcosa in comune ed è la sensazione che ho, con loro, di stare perdendo tempo. àˆ ormai risaputo il mio terrore per la morte, la mia ossessione per le lancette che scorrono troppo veloci, la mia sensazione di stare buttando via giornate e pezzi di vita. Ecco, con le persone che mi hanno deluso, tendenzialmente, ho capito di aver perso tempo. Di aver investito risorse, pazienza, parole, giornate, soldi magari anche, e mentre io ero lì, presente, e cercavo di vivere il nostro rapporto appieno, loro erano altrove, nascosti dietro una maschera di menzogna, parcheggiati con me in quell’istante che per me era significativo, e per loro invece era interlocutorio. Ancora, a volte, mi arrabbio quando succede. Divento scura in volto, ho giornate no quando ci penso, e mi viene voglia di spaccare qualcosa. Quando ci rifletto a mente lucida, invece, mi rendo conto che devo ringraziare ogni esperienza di questo tipo, perché mi aiuta a selezionare sempre meglio le mie frequentazioni, e a farle diventare rapporti significativi. Certo, mi fa anche molto squallore quando qualcuno smette di inseguire i propri sogni, si accascia, quando qualcuno si impigrisce o si “normalizza”. Non apprezzo poi molto la normalità , io. La normalità  è uno dei più prepotenti schemi mentali, uno di quelli che ti inchioda a quello che si aspettano gli altri e ti impedisce di esprimerti veramente.
Forse, quando penso a questi individui che hanno costellato il mio passato, me la prendo anche con me stessa per non aver saputo giudicare bene il carattere di una persona, per aver investito il mio tempo, e quindi i miei brandelli di vita, in modo poco proficuo.

Però poi per fortuna noto che ho attorno delle persone su cui so incondizionatamente di poter contare. Persone che sono frutto, a loro volta, di un processo di selezione che è stato drammatico, in alcuni momenti, ma che ha dato i suoi frutti. Ci sono persone con cui mi sono aperta, che mi conoscono davvero a fondo, e che nonostante questo decidono di restarmi accanto. Decidono consapevolmente di fare la fatica che ci vuole per frequentare una come me, per discutere con me, per ridere, mangiare, viaggiare, scoprire con una come me. Ed è confortante sapere che queste persone sono relazioni significative. Alcune vengono da un passato lontano e mi conoscono da quando sono nata. Altre sono retaggio dell’adolescenza, e con loro condivido un bagaglio di emozioni pure che sono però sopravvissute all’età  adulta. Altre ancora le ho conosciute tardi, magari da soli 5, 10 anni, e però sono scattate indescrivibili affinità  elettive e sento di avere una rete sparsa qua e là  di persone con cui, quando ci si incontra, è proprio come dicono, sembra non essersi mai salutati. Queste persone mi fanno dimenticare i tradimenti, le delusioni, l’amarezza. Queste persone mi fanno sentire una privilegiata, una persona speciale, che può interagire, amare ed essere amata da qualcuno che veramente “spicca” e che, allo stesso tempo, è in grado di tirare fuori la parte (le parti) migliore di me.

E alla fine ci sono le persone che non riesco a inquadrare. Per esperienza, le persone in questo gruppo finiscono inevitabilmente nel gruppo delle delusioni. Solo due o tre persone a cui ho voluto veramente bene hanno finito per amareggiarmi. Il resto del gruppo è formato da persone con cui non scatta “nessuna scintilla”, ma con cui si interagisce a lungo, per molto tempo. Salvo poi scoprire che sono deludenti. Solo che sono un’indefessa ottimista che vuole concedere una chance all’umanità  e non me la sento di non “provarci” nemmeno e di squalificare le persone con cui non scatta “l’amore a prima vista”. Quindi io ci provo. Dal basso della mia insignificanza, vado fiera del fatto che do una chance a tutti.

Certo, più passa il tempo, meno tempo dedico a ognuno: c’è sempre meno margine per entrarmi nel cuore, che è già  così pieno di amore e di amicizia che rischia di scoppiare. àˆ su questo che mi concentro quando ho giornate in cui spaccherei tutto e distruggerei e insulterei e farei del male. àˆ difficile convertire la rabbia in energia creativa, ma è il mio allenamento di questi giorni, di questi mesi, di questi anni. Lo faccio per me, perché mi fa stare bene. Ma lo faccio anche per tutte le persone che mi stanno vicine nonostante tutto, perché so quanto posso essere pesante come un macigno, e trascinare a fondo tutto e tutti, o luminosa come un arcobaleno, e scatenare sorpresa e felicità , se ci provo davvero.

Estate n. 1 – Winter is coming

Innanzitutto, mi sono ricreduta. La sezione in cui parlo di te e di noi non la voglio chiamare Mater Terribilis, in onore dei miei complessi, bensì Leopardo, in onore del tuo soprannome teneroso.

Mi sono chiesta a lungo perché non scrivevo di più di noi due, di te, di noi tre, del papà , del mio essere mamma, dei tuoi progressi, di tutto. Forse ho imparato da Tristram Shandy che per scrivere in modo esaustivo della vita bisogna, in fondo, smettere di viverla, e questo non mi va. Poi perché, diciamocelo, arrivare a fine giornata a volte è già  un’impresa così, con te che vomiti ovunque, ti arrampichi nelle prese della corrente, lecchi il gatto, mangi gli uccelli caduti dai rami, spargi moccio in giro per casa, urli fino allo sfinimento per non dormire, mangi e sbrodoli come una pentola a pressione troppo piena. O, come in questo preciso momento, ti attacchi al mio vestito e tiri fino a piegare lo spazio tempo e a farmi chinare verso di te.

Piccolo, bavoso, morbidoso Leonardo della mia vita.

In realtà  è difficile parlare di quello che ci sta succedendo ora che siamo diventati una famiglia di tre individui e a dettare legge sei tu. Fin da quando sei nato, molte persone mi dicono: “Ah, goditelo adesso che è così piccolo e lo puoi coccolare, perché poi…”

Poi cosa? Certo, sono sicura che a 12 anni sarà  un’impresa anche solo darti mezzo bacio, ma ora devo dire che ogni giorno che passo con te mi diverto di più. Cresci, stai, seduto, gattoni, ti arrampichi, stai in piedi tentennando e cercando di farcela da solo ogni giorno di più. Riconosci i libri che ti leggo e hai già  i tuoi preferiti (tipo “Boccacce” o “Amici alla fattoria mano nella mano”), riconosci me e il papà  e ogni volta che ci vedi fai dei sorrisi da spalancare il cielo. àˆ più faticoso ora che ti muovi? Fisicamente sì, ma è più “comprensibile”, per me, stare con te e quindi a conti fatti è più facile. E sono sicura che sarà  sempre più facile, nonostante tutte le difficoltà  che ci saranno quando crescerai. Fasi difficili, problemi, malattie.

Malattie che abbiamo inaugurato in pompa magna questo settembre, prima con un banale raffreddore, ora con tosse e febbre a 39.5. E sento già  che il tuo ruolo di untore lo ricopri bene, lo ricopri alla perfezione, perché il raschiorino in gola e il naso che cola non stanno risparmiando nemmeno me. Aspetto la febbra con ansia.

Però ieri, per dire, è successa una cosa bella. Nonostante tu ti sia puntualmente ammalato il weekend e siamo dovuti stare tappati in casa, io mi sono sentita estremamente a mio agio a cullarti, coccolarti, accudirti e cercare di farti superare i momenti più duri di febbre alta. Tu avevi gli occhietti lucidi e le guance rosse, io ti tenevo in braccio e ti portavo in qua e in là , cantando canzoncine inventate che ti calmavano (mentre tuo padre rideva sotto i baffi). In quel momento, a differenza di tutte le volte che perdo la pazienza quando qualcosa va storto, beh in quel momento, dicevo, mi sentivo dove dovevo essere, al mio posto, perfetta in quel momento come mamma, lì con te nonostante tutto e tranquilla con le mie stupide canzoncine, convinta che le mie braccia, il mio petto e la mia voce sarebbero bastati a calmarti. E in effetti così è stato.

Oggi mi hai ricompensato ricoprendo di bava ogni centimetro della mia faccia e ridendo come un pazzo quando ti mangiavo il pancino sul letto.

Ecco, dopo i primi mesi di caos totale (soprattutto DENTRO di me), ora mi sento veramente mamma come mi immaginavo. Non più in preda al panico, non più inadeguata, non più spaventata, ma sicura di me anche nell’ignoto totale che affrontiamo ogni giorno insieme, tranquilla anche quando ti alzi urlando la notte perché stai male e hai bisogno di me, sorridente quando sputi tutta la pappa sulla tovaglia perché non ti va più e non sai ancora dire: “Basta, mamma”.
Questo è per me essere mamma: una fatica sovrumana ricompensata da un affetto incondizionato e da un sentimento di appartenenza che rare volte ho provato così intensamente – forse solo con il tuo papà , quando siamo io e lui alla conquista del mondo con le nostre storie.

Insomma, l’estate è finita e sta arrivando l’inverno. Ma questa volta mi trova pronta: farà  freddo, sarà  buio, sarà  dura, come lo scorso anno quando sei nato, eri piccolissimo e io tremavo di continuo. Questa volta sono pronta perché ho imparato a conoscerti e perché ho imparato a conoscermi un po’ meglio, e il freddo, il buio, le difficoltà  saranno solo una cornice di una fotografia bellissima in cui ci siamo noi, insieme.

Noi e le nostre storie… Ma questo è un capitolo a parte, di cui ti parlerò domani. Per ora, buonanotte e sogni d’oro (senza febbre, speriamo).