Perché la libertà di stampa può essere dannosa per il paese!
Vuoi aiutare anche tu Silvio a difendere il paese da attacchi di libera espressione?
Con Italian Defender, oggi puoi!
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Sono a dieta. Come tutte le donne in questa stagione. Come tutte le donne pressoché sempre.
Solo che io, a differenza di tutte le donne che fanno la dieta, sono grassa. Perché le donne fanno la dieta di mantenimento. Io no. Io sono una cicciona schifosa e quindi devo fare la dieta prima che le ossa delle mie gambe non riescano più a tollerare l’infausto peso del mio corpo.
Mangio normalmente, in realtà . Un’alimentazione tutt’altro che sacrificata. Ma come si sa, il problema della dieta è psicologico. Se qualcuno mi facesse da mangiare e mi dicesse che sono piatti di novelle cuisine o cose del genere, io sarei tutta sazia e non penserei mai al cibo. Invece sono a dieta e lo so perché non devo mettere troppo olio, non devo mangiare carboidrati a pranzo, non devo mangiare proteina a cena e mi sono rotta il cazzo di perdere mezzo etto alla settimana. Voglio dimagrire qui e ora, subito.
Tant’è che stavo giusto pensando di amputarmi una gamba. Giusto come misura motivazionale.
Poi vivo con Mr Metabolismo Accelerato, che può mangiare un’intera confezione di Pan di Stelle da solo e avere ancora fame, che si può scofanare una confezione maxi di yogurt e dire “C’è del succo, per caso?”, che può mangiare pizza, cibo cinese e patatine fritte pressoché all’infinito e DIMAGRIRE, ebbene sì, DIMAGRISCE, la merda. E non posso nemmeno dire che faccia una vita in movimento, perché vive in simbiosi con la sua tastiera, da quando le riprese sono finite e c’è solo la post-produzione.
Ora, queste sono ingiustizie della vita. Peraltro, come faccio io a mangiarmi solo una carota quando poi lui nel piatto ha un chilo di carbonara con mezza forma di grana grattugiata sopra?
Voglio morire.
E sapete da quando sono a dieta? Da lunedì.
Ok, lunedì scorso, non ieri. Però.
Se mi alzo di notte di nascosto e vado a mangiare cose a caso, qualcuno mi spari.
Ho bisogno di motivazionismo, vi prego. Motivazionatemi… Devo perdere solo altri 6-10 chili!
Vi pregooooooo.
Il mio cane Ulisse è morto stamattina.
Sto da schifo e non voglio mai più avere un altro cane.
Non riesco nemmeno a scrivere i miei raccontini per ricordarlo e ridere.
Anche se quella volta che si è schiantato contro il vaso di fiori e ha avuto l’orecchio moscio per due mesi…
O quando mi stava sdraiato accanto, nel campo di grano di fianco a casa, ed era estate e io leggevo e lui mi faceva compagnia dormendo, all’ombra…
O quando saltavamo il muretto in fondo alla strada in salita, quando ancora non c’era la recinzione, e lui era bravissimo e io facevo fatica a stargli dietro…
O quando siamo stati inseguiti dai cani e io l’ho preso in braccio e ho cominciato a correre verso casa, e lui mi ha sempre voluto bene, mi ha sempre salutato, ogni mattina quando uscivo e ogni sera quando tornavo, perché eravamo amici, e si fidava di me, ed è stato il mio cane.
Il mio primo e ultimo cane.
Fa un male tremendo.
Cao Baoping crede nell’amore dolente, tragico. La sofferenza è il motore dell’uomo, secondo lui, e tutte le nostre azioni sono tentativi disperati di raggiungere una felicità a cui però non siamo destinati. Per questo tutto il film drammatico The Equation of Love and Death ruota intorno a una giovane tassista che approfitta del suo lavoro fortemente a contatto con la gente per cercare il suo fidanzato, scomparso nel nulla quattro anni prima.
Il film ha numerosi pregi, tra cui quello di essere chiaro e di concentrarsi su personaggi ben definiti, che aiutano lo spettatore a entrare in sintonia con le loro motivazioni. Il finale è forse un po’ confuso, con motivazioni di cui non sono sicura di aver compreso l’origine e con un esito decisamente inutile. Il voto che ho dato a questo film, però, è basso, e il motivo è ideologico. Probabilmente la mia opinione non è abbastanza attendibile e non voglio che questa osservazione sembri categoria, ma quello che ho percepito mentre guardavo il film è stato inequivocabile. Il regista Baoping ha avuto non pochi problemi nell’esportare Trouble Makers, in cui denuncia la corruzione capillare all’interno della società cinese e, probabilmente, non ha voluto ripercorrere la stessa strada di difficoltà e ha deciso di aderire a quello che io interpreto come un terribile compromesso. La trama del film prevede un’indagine, in cui viene coinvolta anche la polizia: ora, il ritratto che il regista fa della polizia cinese è a dir poco imbarazzante: agenti gentili, al limite del sottomesso, enormemente comprensivi verso la protagonista che, in preda a crisi isteriche, li getta a terra, li aggredisce, toglie loro le sigarette dalle mani con arroganza. Il comportamento degli agenti, in generale, è assimilabile a quello di un “padre buono” che osserva con dispiacere e tolleranza i capricci del figlio in fasce. Purtroppo, per quanto poco informata, non credo che questa sia la reale natura della polizia cinese. Continuamente, nella pellicola, da quando compare la polizia, la mia attenzione è stata totalmente veicolata a quegli scambi di battute (peraltro secondari), a quelle scene d’azione, a quei momenti di silenzio il cui unico scopo era quello di sottolineare ancora e ancora la natura magnanima del corpo di polizia. Le motivazioni del cittadino sono al primo posto. La dignità dello stato è messa in secondo piano rispetto ai sentimenti dei protagonisti. Certo, c’è sempre un’integerrima onestà da parte di tutti i poliziotti, ma anche una profonda e umana comprensione.
Posso capire le difficoltà del vivere in uno stato che pratica una censura così feroce.
Posso comprendere la volontà del regista di fare liberamente il suo lavoro e di parlare con il mondo, scendendo a compromessi nel suo paese e facendo una “marchetta” (peraltro, palesemente esagerata e quasi dissacrante) al regime.
Quello che non riesco a capire è come tutto ciò possa passare sotto silenzio.
Se fare film (così come scrivere, dipingere, come ogni forma d’arte o di comunicazione) significa semplicemente confezionare un prodotto e accettare tutti i compromessi possibili pur di arrivare a venderlo, allora non posso giustificare il regista, che ha sicuramente deciso di fare di tutto perché la sua storia raggiungesse il mondo (e questo, di per sé, è un bene) svendendo però i propri personaggi e la propria ideologia, nonché la spinta di dissidenza verso il regime che, in quanto artista di fama internazionale, possiede.
Se, invece, fare film e fare arte e comunicare significa dire quello che si ritiene eticamente giusto, sfruttare la propria posizione di potere non per lodare il sistema ma per cercare di cambiare quello che secondo la nostra coscienza ci sembra non funzionare, allora questo film è un fallimento totale, perché la storia d’amore drammatica in sé non è abbastanza forte da giustificare il compromesso della “sviolinata” alle forze dell’ordine cinesi.
Perché sì, ci sono storie che sono così forti da reggere anche terribili compromessi, ma questa non è una di quelle.
Magari la prossima volta andrà meglio.
Voto: 2 su 5
Non ho mai pensato che il fatto di arrossire per l’imbarazzo nelle situazioni più impensabili potesse essere qualcosa di così tremendo. Invece è proprio intorno a questa caratteristica della protagonsita che ruota tutto il film. Commedia prodotta da Park Chan-wook (Old Boy best film ever), la storia racconta di Me-sook, insegnante delle superiori e delle sue disavventure da outsider emarginata al liceo, prima come allieva, poi come insegnante. Tra storie d’amore inventate, identità rubate su MSN, nottate insonni in furenti (e fasulle) sessioni di chat porno ispirate al Kamasutra, il film fa sorridere e diverte, anche se non è nient’altro che una piacevole commedia leggera.Nonostante non nutra una spiccata preferenza per il genere, la storia è godibile. Finale un po’ trascinato e decisamente prevedibile, ma il cameo di Park Chan-wook che riveste il ruolo dello sfortunato dermatologo che fa anche da psicoterapeuta alla protagonista nevrotica ripaga di qualsiasi noia.
Voto: 3 su 5
Che il cinema Indonesiano abbia dei problemi, questo si sa. Forse lo tsunami, forse tutta quell’umidità , non saprei. Eppure sembra un bel posto. Comunque. Fiksi (Fiction, in inglese) è l’ennesima storia di un amore ossessivo, di un rifiuto, di una mente distorta nel corpo di una bella ninfa intelligente e artisticamente dotata.
Questo in teoria.
In pratica, Fiction è la storia di una figlia di papà traumatizzata dal suicidio della madre che decide di fuggire dalla bambagia in cui è stata tenuta per anni e di sperimentare la vera vita in un casermone popolare. Personaggio stereotipato come più non si potrebbe, Alisha è attorniata da altri personaggi altrettanto prevedibili, scontati e con un destino chiaramente segnato fin dall’inizio: la morte. Tutti quanti, infatti, devono morire per permettere allo scrittore geniale che partorirà le storie da cui è tratto il film stesso (metareferenzialità da bar, purtroppo) di trovare una degna conclusione per ognuno dei suoi racconti.
Il film è un buon tentativo di fare qualcosa di vendibile e, probabilmente, in parte originale, ma purtroppo fallisce nel suo intento: è scontato, prevedibile, piatto e addirittura noioso. Le scelte di musica e audio, tanto incensate dalla critica, si sono rivelate piuttosto fastidiose e anziché sottolineare il pathos e la suspense sortivano l’unico effetto di innervosire. Probabilmente anche il livello dell’audio, troppo alto, in sala, non ha aiutato…
Voto: 1 su 5 nonostante l’impegno