Far East Film 12 – La Comédie Humaine

Film un po’ spocchioso e molto pretenzioso: una sorta di “Vanzina” impegnato, uno sbrodolamento su una serie di tematiche raffazzonate e trattate “a cazzo di cane” (per usare un francesismo): la dura e solitaria vita del killer, la dura e solitaria vita dello sceneggiatore, le donne e le loro nevrosi, cos’è veramente l’amore, cos’è veramente l’amicizia, tante scuregge, cazzotti e volgarità  gratuite. Un film così fatto in Italia non l’avrei mai visto. Questo mi ha fregato perché dalla recensione e dal titolo aveva un “aspetto” più serio, salvo poi rivelarsi la solita commediola triviale che però cerca anche di insegnare qualcosa (e che quindi fa innervosire ancora di più).

Un killer professionista  si ammala e viene accudito da uno sceneggiatore solo (e brutto e fastidioso e incapace). Tra i due nasce una profonda amicizia e, insieme, maturano, crescono, superano le loro paure e trovano posto nel mondo. Il tutto condito da camicie troppo strette, pance di fuori, bava, pollici succhiati, ragazzine che pesano 40 kg e ti distruggono casa, battute omofobe, eccetera, eccetera, eccetera.

Tristezza a palate, ma la ciliegina sulla torta è la metareferenzialità  finale, per cui uno dei protagonisti prima entra e poi esce dal grande schermo. E ci insegna una preziosa lezione di vita: i protagonisti brutti e fastidiosi NON migliorano col tempo.

2 su 5

Far East Film 12 – Running Turtle

Quest’anno abbiamo indetto una “sfida interna” e ognuno di noi si è fatto portavoce e sostenitore di un film: Running Turtle era quello di Giacomo.

Investigatore goffo, spiantato, licenziato con famiglia a carico cerca soldi facili e, nel cercare di farli, prima perde poi ritrova la fiducia della famiglia (e soprattutto della figlia). Questa, in due righe, la trama del film. Anche se è “solo” un film comico, con buoni innesti d’azione, Running Turtle si comporta bene dall’inizio alla fine, con scontri buono-cattivo degni di nota, con momenti tragicomici e molto, molto amari (come quando la figlia di 7 anni rifiuta la paghetta e dà  i soldi al papà , “perché ne hai più bisogno tu”). Niente colpi di scena eclatanti, niente sorprese a metà  strada, ma per tutta la (lunga) durata del film si arriva a empatizzare con il personaggio protagonista e a sperare che ce la faccia.

Siparietti comici da parte di Giacomo che applaudiva ripetutamente e che si è anche fintamente alzato in piedi alla fine del film, per sottolineare quanto il suo “pupillo” avesse mantenuto le attese. Io ho resistito un po’, ma tutto sommato questo film rientra nello spirito di questo Far East: poche emozioni veramente “forti”, ma una qualità  media decisamente alta.

3 su 5

Far East Film 12 – Gallants

Derek Kwok e Clement Cheng, due registi che mi hanno ricordato due registi nostri amici, hanno diretto questo film d’azione a base di un po’ di stereotipi e qualche sano momento di ilarità . Un giovane e sfigatissimo agente immobiliare viene inviato in una cittadina di provincia a sanare una faida tra due famiglie. Ovviamente, i cattivi sono forti e i buoni sono deboli: così deboli che il Maestro, più abile tra tutti nelle arti marziali e indispensabile per far soccombere la fazione avversa, è in coma da 30 anni. Tiger e Dragon, i suoi due prediletti, lo accudiscono amorevolmente e aspettano fiduciosi il suo risveglio che avverrà , ovviamente, nel momento più opportuno anche se con qualche… imprevista conseguenza (quale la perdita della memoria e, per dirla con un termine tecnico, un rincoglionimento totale del Maestro).

Il film è un inno nostalgico al kung fu di Honk Kong “vecchia scuola” e, in generale, sottolinea di continuo il rimpianto dei bei tempi andati in cui i veri protagonisti erano l’onore, il rispetto e blablabla.

Il film in sé non ha particolari meriti, né narrativi né artistici: i personaggi sono stereotipi ambulanti (il protagonista è il simbolo della decadenza moderna della gioventù senza spina dorsale, l’unica donna presente serve solo per inserire una figura femminile in tutta la narrazione, i cattivi sono cattivi, i buoni sono onesti e leali, il Maestro è il migliore in ogni caso, eccetera), l’esito e la morale sono prevedibili e anche molto banali, tuttavia il film è “un compitino ben fatto” e intrattiene piacevolmente (sempre che non stiate cercando la verità  sulla vita, ecco).

3 su 5

Far East Film 12 – The Message

Un ottimo film di spionaggio cinese ambientato negli anni ’40. Agenti segreti in incognito, infiltrati rivoluzionari, complotti da ordire e da sventare: ingredienti indispensabili di questo più che piacevole intrigo nazionale in cui il “messaggio” del titolo viene anteposto alla vita stessa degli attori in gioco.

L’ambientazione alla Agatha Christie, in un castello isolato e irraggiungibile, non deve ingannare, perché non si tratta di una semplice riedizione di Dieci piccoli indiani o di un Invito a cena con delitto: da un clima di curiosa suspense si passa rapidamente a claustrofobiche torture, colpi di scena, comportamenti illeggibili e difficilmente interpretabili secondo canoni prevedibili. Ottimi attori, buona storia, personaggi molti “cinesi” – dediti, impassibili, sacrificali – e ha per così dire tracciato la “cifra” del festival, quest’anno: film magari non coinvolgenti o emozionanti in modo sconvolgente, come lo scorso anno, ma sicuramente curati, approfonditi, maturi.

3 su 5 e un plauso allo spiegone finale (che di solito non apprezzo) perché ha veramente tirato le fila della situazione

Far East Film 12 – The Actresses

Un giorno, il regista E. J-Yong si sveglia e decide che  probabilmente l’offerta di Vogue di dare un film su un gruppo di attrici che devono posare tutte insieme per un servizio fotografico (prima volta che avviene una cosa del genere, in Corea del Sud) potrebbe essere una storia emozionante. Per descrivere le “sfaccettature di una (o più) star”. Per parlare della sensibilità  femminile. Per mostrare le nevrosi di donne tanto sofisticate ma in fondo tanto semplici.

Il risultato? Due palle così. Il film è girato con maestria, le attrici si comportano egregiamente, nella finzione di interpretare se stesse in modo marcato e appariscente, la fotografia è curata, gli abiti ancora di più (non dimentichiamo che è un doppio “spot”, per le attrici e per Vogue) ma il clima che si crea nel film è stantio, forzato,  i dialoghi definiti “brillanti” sono in realtà  confuse apologie di un femminismo deprimente in cui le donne sono esseri che pensano solo alla linea, ai divorzi, alla vecchiaia.

Tutta questa fiera delle vanità , coronata da un paio di servizi fotografici alle attrici, è in realtà  solamente  uno spreco di energie. Forse il senso dell’incontro di queste figure femminili apparentemente distanti ma in realtà  profondamente affini è proprio che lo spirito delle donne è uno, non importa quale sia l’età , la provenienza sociale, i “ruoli” che la vita ti ha portato a interpretare, sia sul palco che nella vita privata. Il risultato però è noioso, fa scattare istinti misogini e relega, per l’ennesima volta, la donna al suo “cortile” di casa, e cioè alle frustrazioni imposte dalla società , alle frustrazioni che sono “giuste” per noi, che sono adeguate, quelle che tutti si aspettano.

Banale, ecco come lo definirei. Non avete capito bene di cosa parlo? Beh, immaginatevi un monologo nevrotico e inconcludente di attrici come Laura Morante, Margherita Buy, Martina Stella, Claudia Pandolfi e altre due donne attrici italiane. Allungatelo per due ore. Ecco, forse ora avete capito di cosa parlo.

2 su 5

Far East Film 12 – Zero Focus

Zero Focus

Film giapponese del 2009, regia di Inudo Isshin, questo film è un’ambiziosa scimmiottatura di un giallo hitchockiano: donne sull’orlo di una crisi di nervi, mariti scomparsi, paesaggi ovattati e verità  scomode da tenere a bada.
Ottima l’atmosfera: luci, fotografia, paesaggi ricostruiscono bene un senso di oppressione dovuta a un mistero da scoprire. Il ritratto della provincia giapponese innevata di Kanazawa, della vita e delle abitazioni anni ’50, la reazione di una nazione fiera e operosa come il Giappone nei primi anni del dopoguerra, tutto è tratteggiato con precisione discreta a mai abusata.
Passabile la storia: intrecci di vite e menzogne che vengono portate a galla da una giovane donna che ha perso il marito (lo ha letteralmente perso, nel senso che non riesce più a trovarlo).
Fragili e deboli i personaggi: le tre donne protagoniste sono spesso spinte da motivazioni al limite del verosimile, compiono scelte forzate e anche i personaggi maschili che gravitano intorno a loro sembrano, nella parte finale, risentire di questa illogicità  spinta, che non trova nessuna giustificazione nel colpo di scena finale (per me ben prevedibile fin dall’inizio del film).

Quello che mi ha fatto apprezzare il film è stato invece il modo in cui ha ricostruito le sorti delle donne nel dopoguerra e l’avvio della fase di emancipazione (con ingresso in politica, alfabetizzazione, indigenza dal mondo prettamente maschile): diversamente da quanto avviene di solito, lo sfondo sociale è piacevole, comprensibile, ben equilibrato e dosato, senza i frastornanti proclami delle suffragette femministe a cui tanti film (italiani e americani) ci hanno abituato.
La debolezza della caratterizzazione psicologica delle tre protagoniste viene compensata dal loro diventare degli “universali discreti” di un periodo storico ben delimitato. Le loro azioni e la loro “fine” sono tutte una sorta di metafora per i ruoli che si stavano aprendo (o chiudendo) davanti alla società  femminile dell’epoca.
Cercare di emulare Hitchock non è un’impresa da poco e sicuramente il Zero Focus non si avvicina allo spessore del grande maestro, ma si salva abilmente dipingendo la società  con colori e immagini decisamente incisivi.
3 su 5