Doveva esserci, prima o poi, un film che mi avrebbe fatto smettere di dire “Vecchi di merdaâ€. Quel film è The Way We Are, perché Hong Kong riserva sempre queste perle un po’ amare ma non troppo, al confine tra personaggi che sembrano indifferenti e piatti e un tumulto di emozioni che si agita nel loro cuore. Come in My Name Is Fame, che nel Far East 9 del 2007 mi aveva strappato silenziose lacrime in sala.
Anche quest’anno il primo film che mi ha fatto piangere in silenzio e asciugare le lacrime (e non solo) sulla manica corta della mia maglietta è stato un film dei finti cinesi, della regista Ann Hui che ovviamente non conoscevo ma che sembra una diquelle donne che raccontano storie (di donne, di uomini, di esseri umani) senza sfociare in un melenso femminismo o in un sentimentalismo fatto di grandi gesti.
D’altra parte, non ci possono essere grandi gesti nela vita di una vedova di cinquant’anni che vive vicino a Hong Kong, a Tin Shui Wai, citta che definire “quartiere dormitorio†è un complimento. Una casa logora, con le porte e i muri scrostati, le sedie scompagnate e le lenzuola di Topolino e Minnie nel letto sia della madre che il figlio sono la metafora della vita della protagonista, che vive lavorando in un supermercato e sembra leggera e indifferente nei confronti di una vita evidentemente squallida e solitaria. Il figlio è un ragazzo annoiato, ma l’autore e la regista hanno ben pensato di non trasformarlo nel solito disadattato che, in mancanza di una figura di riferimento paterna forte (suo padre è in effetti morto) si trasforma in un piccolo teppista delinquente. Il ragazzo è silenzioso, ordinario ma gentile. A entrambi i personaggi, madre e figlio, manca chiaramente qualcosa. C’è un vuoto strano, in quella casa stretta, in quella tavola che sembra essere a misura delle loro cene, in questa loro vita a misura di tutto e di niente insieme, perché fanno tutto quello che si deve fare – cucinare, lavare i panni, stendere, pulire, leggere il giornale – ma ogni gesto sembra veramente compiuto solo nell’attesa del giorno dopo, della sera in cui si andrà a dormire e dell’alba in cui si andrà ancora al lavoro. L’incontro con quella che io avrei definito una “vecchiah†(con “h†enfatica e aspirata alla fine) chiamata Granny, che ha perso il marito prima e la figlia poi, restando isolata dal mondo a osservare una città in cui è dispersa, da un letto sfatto accanto a una finestra, questo incontro, dicevo, serve ai protagonisti per riempire un po’ delle loro giornate, stando insieme a una persona che è sola come loro ma che, come loro, ha la dignità di chi sa convivere con la propria solitudine e, in generale, con la propria vita.
Che poi i momenti più toccanti sono quelli in cui i personaggi mostrano dei lampi di consapevolezza al limite della disperazione ma mai troppo appariscente, in cui usano gli occhi per piangere – da soli – o in cui usano gli occhi per guardare un mondo che sembra così difficile. Anche i letti delle due donne, che pur sono piccoli, rimarcano continuamente l’assenza di due uomini al loro fianco.
Cosa mi ha insegnato questo film? Cosa mi ha ricordato?
Che bisogna sempre portare cose buone da mangiare alla propria nonna malata in ospedale (e meno male che l’ho fatto, quando è stato il mio turno). Che si può piangere in silenzio, guardando fuori dal finestrino di un autobus, o voltandosi di più verso lo schermo, con l’oscurità che ti copre. Due ricette che proverò di sicuro: riso con uova e piselli spiluccati da una ciotola con le bacchette e riso con i funghi, quelli secchi con la capocchia molto grande, il tutto sempre accompagnato da strane verdure che se vedrò saprò riconoscere. Che si può ancora raccontare storie di donne senza parlare di femminismo o di quanto siamo brave a cavarcela da sole: la solitudine si sente, siamo esseri umani, dobbiamo solo imparare ad affrontarla, un passo alla volta, una cena alla volta, fino a quando quel posto vuoto (a tavola, ma anche fuori) verrà riempito da qualcuno di inaspettato.
Voto: 5 su 5