Non credo abbia senso dire frasi come “Questa è stata la settimana peggiore della mia vita”, tuttavia penso che un resoconto più o meno dettagliato di quanto mi è successo da lunedì 13 a venerdì 17 possa aiutare a capire perché a volte il pensiero di mandare tutto a cagare è molto, molto forte.
– Lunedì 13 ottobre: Giacomo è partito domenica sera, il mio morale non è dei migliori, vorrei raggiungerlo subito in mezzo al prosecco, ma mi sa che per un po’ non se ne parla. Già dormire da soli, dopo tanto tempo, fa male. Ricomincio ad andare in università . Sembra che vada tutto bene, quando alle due di pomeriggio mi accorgo che mi stanno rubando i soldi dalla carta di credito usando il mio conto PayPal. Blocca la carta, vai dai carabinieri, NON sporgere denuncia perché non hai ancora l’estratto conto della carta (ma solo l’avviso di PayPal), torna al lavoro e resta fino alle otto per recuperare il pomeriggio buttato al vento in commissioni inutili
– Martedì 14 ottobre: escono i nuovi MacBook. Ok, ci sono alcune cose che non vanno, altre che mi aspettavo un po’ meglio, ma non importa. Mi serve il computer nuovo e lo voglio comprare. Ops! Non posso! La mia carta di credito è bloccata, pofferbacco. A parte un lieve scoramento iniziale, decido di non drammatizzare: sono solo cose, non ne faccio un dramma
– Mercoledì 15 ottobre: un simpatico camionista decide che nelle file al casello “non c’è posto per tutti e due”, invade la mia corsia, mi sperona mi causa 1.800 euro di danni alla macchina. Grazie a tutti quei vigliacchi maledetti che non hanno visto niente e non si sono fermati e grazie anche all’onestà del camionista, compiliamo la constatazione amichevole ma, per dirlo alla francese, me lo prendo in quel posto e va a finire che ci danno il 50% di colpa a testa. Ovviamente l’onestà non è su questa terra. A poco vale il fatto che lui mi abbia ripetuto: “Io non vedo da quel lato del camion”: non c’erano testimoni e resto nella mia infelice condizione di sfigata
– Giovedì 16 ottobre: giornata di tensione, confronto con super-capa che mi mazzuola perché ho uno stile troppo infantile e mi fa pesare tantissimo il fatto di non essere un’autrice madrelingua inglese e di non riuscire a esprimere al 100% e come gli sceneggiatori di Sex and the City l’ironia, il sarcasmo e il tono pungente in americano. Nessun rancore, ha ragione. Infatti preparo le valigie e mi cerco un posto da receptionist, nel mentre. Però (ma lei non lo sapeva) aggiungere frustrazione in una settimana in cui sono già emotivamente scossa…
Poi mi scrive Max e mi fa sentire prima in colpa, poi inutile, poi frustrata: perché dalle sue parole si capisce che gli altri, nessuno, capisce il senso di quello che sto facendo. Ma ne parleremo noi due e basta. Però, sul terrazzo verde pisello di Ubi, ho pianto un sacco, mentre aspettavo di essere redarguita dalla mia capa francese…
La sera, infine, tornando a casa, assisto a una scena che definire pietosa è poco: alla fermata della linea rossa Molino Dorino la gente esce dalla metro e comincia a salire le scale. Una vecchina con i capelli bianchi e in evidente difficoltà è aggrappata con le unghie e con i denti al corrimano, a metà scala, e non si capisce quando potrà ancora resistere. Beh, non solo nessuno si fermava ad aiutare, ma la spintonavano infastiditi in preda alla fretta. Ho sgomitato, spostando due o tre signori in giacca e cravatta che facevano gli gnorri e ho afferrato la signora, aiutandola ad arrivare in cima alla rampa di scale. Erano solo trenta scalini, ma nessuno ha fatto niente. E nemmeno io, alla fine, mi sono sentita un granché felice. Mi è tornata in mente mia nonna, che una volta si è fatta male salendo sul treno e si è sbucciata un ginocchio. Però, almeno, quella volta lì c’era anche mio nonno, e l’ha aiutata. E ho pensato che è veramente triste essere vecchi, ed essere soli, ed essere circondati da gente che non ha più tempo per niente. Ho pianto tutta sera pensando a mia nonna, a quanto mi manca e a ogni volta che ha salito le scale senza che io la aiutassi, perché non c’ero
– Venerdì 17 ottobre: passo cinque ore per la denuncia per la carta di credito, tra il comando di polizia e la banca. E per fortuna che al comando c’è il capo della polizia che mi aiuta, gentilissimo e molto più sveglio di quanto non sarò mai, perché se no ero ancora lì a capire che differenza c’è tra una denuncia e una querela eccetera. Nel mentre, faccio la spesa e, dimenticandomi di non avere il bancomat con me, devo lasciare metà della roba alla cassa per riuscire a pagare (coi 20 euro che avevo in tasca). Passo, infine, il pomeriggio chiacchierando con plurimi operatori di Fastweb: grazie alla rincoglionita signora che mi ha fatto il contratto all’inizio di settembre, pago la stessa cifra per avere UN SERVIZIO IN MENO di quelli che avevo richiesto. Mi incazzo, litigo con tutti quelli che mi vogliono passare ad altri reparti e alla fine trovo un ragazzo che mi aiuta davvero. Conclusione: scrivo a Fastweb una raccomandata e o mi reintegrano il contratto COME L’HO CHIESTO IO, o me ne vado sbattendo la porta.
Cosa ho imparato in questa settimana?
Che non bisogna MAI fare acquisti on-line con la carta di credito (e parla una che compra dal 1999).
Che i soldi non fanno la felicità , ma un Mac nuovo, forse sì.
Che non ci si deve fidare delle persone, mai, in nessuna circostanza. Che la gente è incattivita e vigliacca, falsa e bugiarda e che non si fanno scrupoli a fregarti, anche se sanno di avere torto marcio. Perché tanto, ormai, essere un bravo cittadino non significa essere onesti. Significa non farsi beccare.
Che non sono né sarò mai una madrelingua inglese. E che forse i miei desideri di essere un’autrice saranno solo l’ennesimo sogno sovra-dimensionato che ho. Perché si può cambiare tutto, ma non quello che si è.
Che i miei nonni mi mancheranno sempre e che sì, vivranno con me ogni giorno, ma la mancanza non è razionale e la malinconia che si prova mentre si cresce e tutto quello che eri da piccola se ne sta andando è incontrollabile e inevitabile.
Che mi fa tanto soffrire se nemmeno i miei amici più cari mi capiscono più. Se non si vede, ai loro occhi, una ragione per cui dovrei fare quello che faccio, passare nottate a scrivere e giornate a sognare. Allora forse, veramente, siamo soli, e ringraziamo che almeno siamo in due.
Che meno male che la settimana è finita, perché ho perso più tempo, lacrime, equilibrio e serenità ultimamente che da tanto, tanto tempo.
Con tutto questo però, cosa volevo dire?
Che per la prima volta nella mia vita ho giocato al Superenalotto. Ebbene sì. Perché voglio avere la soddisfazione di un’ennesima cosa che va male, in questa settimana, e cioè, ad esempio, sbagliare la combinazione vincente per un numero, nel senso che escono tutti i numeri prima dei 6 che ho scelto io, oppure perdere il biglietto vincente e dire addio a tutti i miei soldi.
Temo che, come per la nostra società , questa sia un po’ una mia, personale, deriva. Arrivo a sperare in una cosa tanto assurda quanto quella di essere veramente intelligente e gioco un euro perché così tutto andrà bene. Perché “non c’è motivo per non farlo”. Perché è meglio scommettere che non scommettere. Perché sto facendo quello che non si dovrebbe mai, e cioè appaltare la propria felicità alla fortuna. Tant’è.
Tanto lo sappiamo tutti che non vincerò.
Ma almeno avrò provato veramente ad essere felice.
No?