Urlo

Sono andata a vedere Urlo, della compagnia di Pippo Delbono per tanti motivi, tutti poco validi. Prima di tutto perché Natan conosceva il gruppo teatrale e ne parlava in maniera entusiastica. Poi perché era tanto che non andavo a teatro. Infine (ma oserei dire “soprattutto”) perché avevo letto in giro che è una compagnia “strana”, con uno che è stato in manicomio che recita come attore, con tante persone sui generis, un po’ matti, un po’ emarginati.
Sì, lo confesso: sono andata con uno quel tipico senso di voyeurismo molto macabro che mi suscita sempre la diversità .
Sono andata perché pensavo di vedere fenomeni da baraccone. Gente che faceva “il pazzo”.
E l’ho pagata cara. Sì, perché questo spirito di divertimento scanzonato, di curiosità  semi-intellettuale, semi-popolare mi ha, letteralmente, fregato.
Quando Urlo è cominciato me ne volevo andare. E non perché gli attori non fossero bravi, perché la compagnia non fosse professionale, perché non vedessi bene dal mio posto. No, me ne volevo andare per evitare di essere così coinvolta come poi sarei stata. Per il primo quarto d’ora mi sono sentita male. Una sensazione di disagio profondo, di malessere, il tipico “pugno nello stomaco” di cui si parla sempre. Vedevo queste persone sul palco scenico, i loro corpi, le loro forme. Ascoltavo queste urla sgraziate e disperate, pianti isterici e risa di follia, parole di Ginsberg, di Wilde, di Shakespeare, recitate dall’unico personaggio “normale”. Normale? L’eco di questa parola mi ha martellato nel cervello per tutta l’ora e tre quarti di spettacolo. A cosa stavo assistendo? A una fiera di fenomeni da baraccone “felliniani e bunuelliani”, come sono stati definiti? No, non ne sono convinta. Stavo assistendo a sensibilità , a prospettive, a immaginazioni, a delirii, a colpi di genio. Era l’anima di un’umanità  molto più che normale, quella vomitata fuori dalle casette della scenografia. Erano corpi e carne e allegria ed estrema sofferenza, erano esseri umani. Non esseri umani “di seconda scelta”. Questa è l’umanità  che mi piace. Probabilmente – lo spero – questa è l’umanità  di cui faccio parte. Non quella dei borghesi bendati seduti al tavolo delle leccornie. Non quella dei Papi altolocati e potenti, non quella di una politica abietta e senza significato.
Preferisco la nenia popolare di una voce di donna che viene da lontano. Preferisco Bobò, che pensavo solo fosse “uno strano ometto basso”, all’inizio, per poi capire, invece, che era lui quello estirpato a forza da Delbono da quarantacinque anni di ospedale psichiatrico. Preferisco donne androgine alte e con le gambe muscolose o ragazzotte basse e in carne. Preferisco questo sottomondo di artisti e geni compresi, perché mi hanno fatto scoprire il teatro e il suo potere, dopo anni che pensavo di conoscerlo.
Nel buio della sala gremita ho pianto. Ho pianto tanto. Prima con vergogna. Sono grande, non si deve piangere a teatro. Poi con soddisfazione, perché era l’emozione più bella e dolorosa che potessero farmi provare.
Il dannato disagio iniziale era dovuto al crollo totale delle mie barriere, al fatto che degli esseri umani fossero riusciti a mettermi davanti a una realtà  che ben conosco ma che non avevo mai davvero capito.
Normalità .
Pazzia.
Se già  questi deprimenti termini non avevano senso prima, per me, ora ne hanno ancora meno.

“I saw the best minds of my generation destroyed by
madness, starving hysterical naked,
dragging themselves through the negro streets at dawn
looking for an angry fix,
angelheaded hipsters burning for the ancient heavenly
connection to the starry dynamo in the machin-
ery of night…”

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