Marzo 30 2020

Giorno 19/20 – La Seconda Porta – Parte 1

Vi racconto solo oggi cosa ci è successo da venerdì a domenica. A un certo punto, ho dubitato che sarei tornata a scrivere.
Tranquilli, stiamo bene. Perché ci ho messo tanto, dite? Lo capirete presto.

Questa volta siamo partiti tutti e tre, ma l’aspetto più importante è che abbiamo deciso di organizzarci per prendercela “con calma” e restare nella porta più a lungo, se ci fosse venuta voglia. Anziché perdere tempo nel tunnel e poi restare nella porta solo un’ora, abbiamo deciso di varcare la soglia rapidamente e di concederci poi fino a due o tre ore di esplorazione. Non sapevamo cosa aspettarci, ma visto che questa volta siamo andati tutti insieme, ci siamo attrezzati come quando andiamo a passeggiare in montagna: Giacomo ha portato uno zaino carico di attrezzatura e di cibo, io una bisaccia più piccola con quaderno, matita, bussola, orologio e, ovviamente, la Seconda Chiave. Leonardo si è vestito tutto di nero, da ninja, con pantaloni e maglia termica e il gilet di Lloyd, il famoso Ninja Verde di Ninjago. Scarponcini ai piedi, e via.

Considerato il divario di tempo e il fatto che ogni volta che siamo entrati ci siamo ritrovati poi “al buio” dall’altra parte, abbiamo deciso di entrare nel buco la sera di giovedì, verso le 20.00. In teoria, così facendo, avremmo dovuto sbucare dall’altra parte verso le 8.00 del mattino.

Davanti alla Seconda Porta, anche Giacomo ha dovuto constatare l’inspiegabile presenza del tastierino numerico: inutile anche questa volta, perché la chiave di ferro ha aperto senza problemi il lucchetto della porta color azzurro canna da zucchero. 

I nostri calcoli erano esatti: siamo arrivati nel “mondo” della Seconda Porta al mattino ed è stato proprio come nel libro di Frances Hodgson Burnett. La porta aperta dava su uno stretto passaggio tra una vegetazione fittissima e ci siamo incamminati in fila indiana lungo il sentiero di mattoni. Abbiamo ovviamente richiuso a chiave la porta, per evitare che qualcuno – o qualcosa – di cui ignoriamo l’esistenza potesse uscire o entrare. Una precauzione, diciamo.

L’aria era fredda ma c’era il sole e ci siamo sentiti tutti e tre inebriati dal fatto di essere in un luogo così bello, così pieno di verde, liberi, all’aperto. È strano: viviamo in collina, siamo abituati alla natura, ma siamo chiusi in casa da così tanto tempo che trovarsi in un posto del genere ci è sembrato un regalo enorme. Un privilegio.  Ci siamo sentiti così, privilegiati.

Era come se lì la primavera fosse due o tre settimane più avanti. Il profumo dei fiori era inebriante e si sentivano api e insetti ronzare ovunque. Trattenere Leonardo si è dimostrato impossibile, avremmo dovuto incatenarlo. Correva avanti, urlava dalla gioia, ci indicava ogni cosa. Abbiamo deciso di adottare un atteggiamento fatalista: se doveva comparire un leone feroce e sbranarci tutti, non avremmo comunque potuto farci niente, quindi abbiamo deciso di goderci il momento senza troppi sovrapensieri. Per una persona che soffre di ansia patologica come me non è facile: a volte mi sembra di essere inseguita da un leone anche quando sono alla scrivania a scrivere o quando sto cucinando, o ancora quando mi sveglio al mattino dopo una lunga notte di sonno. Il leone è lì, pronto ad afferrarmi, e io devo fuggire. Qui invece mi sento a mio agio, mi sento al sicuro.

Abbiamo camminato per un po’ sul sentiero fino a quando il viottolo si è aperto ed è diventato un vero e proprio vialetto, contornato da siepi e alberi e arbusti di ogni tipo. Ci trovavamo evidentemente in un giardino curato con amore e passione da qualcuno, che aveva costruito ogni angolo con precisione e “visione”. Chi aveva, come noi, la fortuna di poterci entrare, poteva vivere una vera e propria esperienza per tutti i sensi.

In fondo al sentiero, nemmeno a dirlo, c’era una porta. Appena fuori dalla porta c’era una piccola radura e subito dopo si apriva un lunghissimo tunnel (ancora?!) fatto però di rami di alberi intrecciati.

C’erano delle panchine e Leonardo aveva fame, per cui ci siamo fermati a fare una piccola merenda, seduti in silenzio nella tranquillità più assoluta. Non c’erano persone, non c’erano segni di vita, solo un immenso parco a nostra disposizione da esplorare e scoprire. È stato mentre eravamo seduti che Leonardo ha notato qualcosa per terra. Lui guarda sempre per terra, in effetti. Trova le cose più strane e impensabili, per terra. Questa volta ha notato una sequenza di piccolissimi puntini rossi, uno dopo l’altro, che ricoprivano tutto il tragitto che avevamo appena percorso e che continuavano oltre la nostra posizione. I puntini erano impercettibili dalla nostra altezza. Bisognava chinarsi verso il suolo e guardare con attenzione. Mi hanno ricordato molto una versione semplificata della strada di mattoni gialli del Mago di Oz, perché come in quel caso mi sembrava di trovarmi in un luogo di cui potevo esplorare ogni angolo, ma in cui il percorso che mi era “destinato” era ben preciso e già tracciato. Da chi, non ne ho la più vaga idea.

Ovviamente, da quel momento in poi, abbiamo cominciato a seguire quei puntini, assicurandoci di non prendere deviazioni inaspettate. Questo è stato di grande aiuto anche per Giacomo, che non ama particolarmente vagare senza una meta, preferisce sempre sapere dove sta andando. Dopo aver attraversato il tunnel, siamo arrivati a quello che penso fosse il centro del giardino: c’era una fontana con una piccola radura e, più in là, un cancello.

Leo ha giocato mezz’ora intorno alla fontana, ha corso, saltato, fatto le capriole nel prato. Io e Giacomo ci siamo seduti su quell’erba perfetta a guardare il cielo con le nuvole che passavano, così, parlando del più e del meno, in una giornata che sembrava una delle nostre domeniche sui colli asolani, passate a fare pigri pic-nic e amene scampagnate. 

Saremo rimasti lì un tempo infinito, nessuno di noi voleva più andarsene. Ma non dovevamo andarcene, dovevamo continuare la nostra esplorazione, e ci siamo diretti al cancello oltre la fontana. I puntini rossi per terra ci conducevano da quella parte. Oltre il cancello, il panorama cambiava radicalmente: ci siamo trovati in una specie di vecchio villaggio abbandonato. Un meraviglioso borgo inglese o francese do cento anni fa, con case di pietra, tetti in ardesia e un silenzio surreale. Mi ha ricordato i viaggi in Bretagna con Giacomo, quando nel lontano 2006 ci siamo avventurati in un giro con auto e tenda nella regione di Finisterre, o il giardino di Gaia a Edimburgo, o tutti quei meravigliosi posti in nord Euorpa dove regna il silenzio, la sobrietà e dove ancora la presenza dell’uomo sembra affiancarsi a quella della natura, non imporsi. Mi ha ricordato piccoli paesini come Plomodiern, come Quimpere o come Locronan.

Il filo di puntini rossi proseguiva. Ogni volta che ci sentivamo insicuri, bastava guardare per terra e trovavamo la traccia, e sapevamo dove andare. Ci siamo aggirati per il villaggio fantasma, tutte le case erano chiuse, le porte sbarrate e non abbiamo potuto entrare da nessuna parte. Quando ci avvicinavamo alle finestre per guardare dentro, i vetri erano come scuri, neri, e non riuscivamo a scorgere nulla delle stanze all’interno. Chissà chi ci viveva, lì. Chissà dove ci trovavamo. In alcuni momenti della nostra esplorazione ci sembrava di essere come in un sogno, dove gli elementi sono tutti giusti, ma posizionati in modo innaturale, e solo nel sogno hanno un senso. A ripensarci, mentre eravamo lì ci sembrava tutto perfetto, ma se cerco di ricordare mi pare quasi come se qualcuno avesse ricostruito, senza averlo mai visto, un luogo di cui ha solo sentito parlare, o di cui ha letto in un libro. Questo però non ha certo ridotto lo splendore della nostra gita fuori porta, se mi passate il gioco di parole. 

A un certo punto siamo arrivati in fondo all’ultima strada del villaggio: una fila di case e poi un ultimo, imponente edificio. I puntini rossi procedevano sicuri e anche noi abbiamo continuato la nostra marcia. Quando siamo arrivato all’ultima casa del villaggio, i puntini sul terreno si sono interrotti: arrivavano contro un muro e non proseguivano oltre. L’edificio era enorme, più grande degli altri, ma anche questo era inaccessibile. Le finestre oscurate, le porte sbarrate, l’impressione che io e Giacomo abbiamo avuto è stato quasi di trovarci dentro un modellino gigante di qualche sorta.

Tutto sembrava perfettamente disposto, organizzato, piacevole, armonioso, ma non era veramente reale. Non come la pancia di mia sorella e mia nipote, la volta prima. 

Erano passate almeno tre ore da quando eravamo entrati lì dentro. La gita si stava prolungando un po’ troppo ed era il momento di rientrare. È stato proprio quando abbiamo deciso di andare via che ci siamo accorti che Leonardo era fermo davanti a uno dei muri dell’ultima casa, in effetti proprio alla fine del sentiero di puntini. Guardava fisso verso l’alto, immobile, contro il muro. Abbiamo avuto entrambi un brivido: ci è sembrato uno di quei momenti che si vivono nei film dell’orrore, in cui i bambini vedono qualcosa che agli adulti sfugge e questo mette in moto una serie di disastrosi, cruenti e macabri eventi. Per fortuna, però, Leonardo stava guardando qualcosa di ben preciso. Qualcosa a cui non poteva arrivare, perché troppo in alto, ma lì, fisso e reale nel muro.

Era la Terza Chiave. Vedendo quel singolo oggetto, l’unico elemento “interattivo” comparso fino a quel momento, e così significativo per noi, lì, alla fine di tutto il percorso di puntini rossi che ci aveva accompagnato per tutta quella esplorazione, ho realizzato che quello che stavamo vivendo non era casuale. Ho capito che c’era un disegno, dietro a tutto. Certo, era forse già ovvio nel momento in cui le chiavi avevano cominciato ad apparire sul pavimento del nostro bagno, ma era chiaro che qualcuno o qualcosa ci stava lentamente guidando e spiegando “le regole del gioco”. Oggi era stato facile. Molto facile. Troppo facile.

Ho preso la chiave e l’ho data a Leonardo. D’altra parte, l’aveva trovata lui, se la meritava. Aveva una catenella attaccata, e così se l’è messa al collo. Eravamo increduli di stupore e pieni di mille pensieri quando ci siamo incamminati sulla strada del ritorno, verso la Seconda Porta per tornare a casa. Mentre camminavamo, Leonardo correva davanti a noi, e io Giacomo cercavamo di mettere in ordine le idee su quello che ci stava capitando. Eravamo così concentrati a parlare che siamo ritornati quasi senza rendercene conto alla fontana, e poi abbiamo proseguito sul sentiero per tornare alla Seconda Porta. Dopo poco, però, ci siamo accorti che c’era qualcosa di strano. Ma ce ne siamo accorti troppo tardi. Stavamo per scoprire che, questa volta, uscire non sarebbe stato facile quanto lo era stato entrare.

Nel mentre, erano passate 4 ore dall’ingresso nella Porta. Cioè, 2 giorni interi nel mondo reale.

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