Marzo 26 2020

Giorni 16/17/18 – La Prima Porta

Dopo lunghe discussioni, abbiamo deciso che sarei stata solo io ad entrare nella Prima Porta. Era la cosa più sicura per tutti: Leonardo poteva restare a casa con Giacomo, avremmo potuto testare il divario temporale e i suoi effetti su di me/su di loro e, qualsiasi cosa ci fosse oltre quella Prima Porta, sarei stata solo io a pagare le conseguenze della mia curiosità, in caso.

Non sapendo cosa aspettarmi e quindi come equipaggiarmi, ho deciso di andare praticamente senza niente. Ho portato il telefono, ho indossato una tuta e una felpa che devo aver rubato a qualcuno, perché non ricordavo di averla, e delle scarpe da tennis e ho preso la chiave. Ho salutato Giacomo e Leonardo con un bacio.

Abbiamo controllato l’orario: erano le 11.30 quando sono entrata nel buco nel muro. Appena arrivata sul pianerottolo, sia io che Giacomo abbiamo fatto partire un cronometro, sui nostri smartphone.

Sono scesa dalla Prima Scala che ormai è quasi un posto familiare. Sono arrivata nel Primo Tunnel e alla Prima Porta, che si trova nella prima “scansia” a sinistra del corridoio. Mi sentivo come in Interstellar, quando Cooper atterra sul primo pianeta, quello con la superficie ricoperta di acqua, in cui ogni ora passata sul pianeta corrisponde a 7 anni sulla navetta spaziale. La sensazione era la stessa, con un’idea di urgenza da una parte, ma anche con la necessità di capire meglio dove mi trovassi e quali fossero i dettagli che ci potevano dire di più su quel posto. Infatti, nonostante la fretta, mi sono presa il tempo per guardare l’esterno della porta e ho notato che c’era un tastierino numerico per inserire una combinazione. Il che era strano, perché io avevo la chiave, in teoria. Ho deciso allora di guardare anche le altre porte del Primo Tunnel: accanto a ognuna, incastonato nella roccia, c’era sempre un tastierino metallico standard.

Volevo andare a vedere se anche nel Secondo Tunnel c’era qualcosa, ma avevo paura di perdere troppo tempo. In effetti, ero là sotto già da almeno venti minuti. Sono tornata alla Prima Porta, ho deciso di non toccare il tastierino numerico e di provare ad aprire la serratura. La chiave è entrata facilmente nella toppa. L’ho girata. Ho premuto la maniglia con la mano. Il cuore mi batteva così forte che mi sembrava riecheggiare in tutto il tunnel.

Ho spinto la porta e sono entrata.

Sono sbucata in un luogo familiare: un piccolo appartamento con i mobili color pastello, una TV enorme e un gatto grigio assatanato. Mi sono guardata alle spalle: dietro di me c’era la porta aperta, che dava sul tunnel. Davanti a me c’era il normale salotto di un appartamento in città. Ho chiuso la porta, che è rimasta lì, ben visibile, e incastonata dove avrebbe dovuto esserci il frigorifero. Appena chiusa la porta, lo smartphone mi ha vibrato molte volte, in tasca, ma non l’ho preso. Dovevo capire dove mi trovavo, non avevo tempo per i messaggi di Whats App o le mail, in quel momento.

Ho mosso qualche passo in casa: questo posto lo conosco bene, lo conosco a memoria. Cammino e mi guardo intorno. Sono chiusa in casa mia da 16 giorni e trovarmi improvvisamente al quarto piano di un appartamento in un condominio di Quartiere Adriano, a Milano, è strano. La prima cosa che faccio è uscire sul balcone e guardare fuori. Non c’è mai nessuno a quest’ora, nemmeno di solito, ma ora si vede proprio che è tutto fermo e spento. Anche nelle case di fronte non c’è nemmeno una luce accesa.

Rientro e decido di andare in camera da letto. Improvvisamente, capisco perché sono qui.

Mia sorella Giulia dorme vicina al suo compagno e io mi avvicino pianissimo. Mi siedo sul letto e faccio, in silenzio, quello che voglio fare da più di un mese: parlo con mia nipote Camilla, nella pancia di mia sorella che dorme. Le chiedo come sta, le dico che non vedo l’ora di conoscerla, le dico che è fortunata perché avrà una bella mamma e un bel papà, ma soprattutto una zia fenomenale. Mentre le parlo, tengo le mani sulla pancia e la bocca vicina vicina, così posso sussurrare. Non so per quanto tempo sono rimasta a dirle cose, so solo che a un certo punto lei si è mossa. Forse ha tirato un calcio, forse se è girata, ma ho sentito quella pressione tipica dei bambini nella pancia, come un premere leggero e continuato per qualche secondo, e poi basta. Mi ha ricordato quando avevo Leonardo nella mia, di pancia.

Mia sorella mi dice sempre che sta bene, che va tutto bene, che fa i controlli, e io sono felice, ma poter sentire mia nipote che scalcia è veramente indescrivibile. Non l’avevo mai sentita prima, perché l’ultima volta che ci siamo viste con Giulia, Camilla era troppo piccola e non si muoveva ancora. O per lo meno, non si sentiva da fuori. Ero terrorizzata dall’idea che questa quarantena ci avrebbe tenuto lontane fino al giorno del parto e che non avrei mai potuto mettere le mie mani sulla sua pancia. Invece posso farlo. Non so come, ma posso farlo.

Ho preso il telefono e l’ho avvicinato alla pancia. E ho registrato questo.

Non ho parole. Mi metto a piangere in silenzio.

Continuo a parlarle ancora per un po’, ma a un certo punto mia sorella si gira nel sonno. Scatto in piedi. Non posso farmi trovare qui, non mi deve vedere. Le verrebbe un colpo. Do un’ultima occhiata alla pancia, torno in cucina e apro “il frigo” – cioè la mia porta di passaggio. Di là c’è ancora il Primo Tunnel. Adesso non voglio andare. Voglio restare. Voglio svegliare Giulia e dirle tutto, voglio continuare a dire cose melense a mia nipote. 

Ma non so quanto tempo sia passato, “di là”, e devo tornare a casa.  Mi è tornato in mente di nuovo Interstellar e quell’intenso scambio di battute:

“Prendiamo lei come esempio: un padre con un istinto di sopravvivenza che si estende ai propri figli. Per la ricerca sa quale sarà l’ultima cosa che lei vedrà prima di morire? I suoi figli. I loro volti. In punto di morte la sua mente spingerà ancora un po’ di più per sopravvivere.”

Ora, per fortuna non mi trovavo in punto di morte, ma mi è venuto in mente Leonardo e il fatto che dovessi tornare da lui. Ho varcato la soglia e ho chiuso la porta alle mie spalle, recuperando la chiave dalla serratura. Ero di nuovo nel Primo Tunnel, pronta per tornare a casa.

Sono uscita dal buco ed era ancora giorno, c’era luce fuori dalla finestra del bagno. Ho chiamato Giacomo e Leonardo, li ho sentiti scendere dalle scale. Nel mentre, ho guardato il mio telefono. L’orologio segnava ancora le 13.30, mentre il cronometro segnava circa 2 ore. L’ho fermato. E c’erano almeno 150 messaggi di Whats App. Impossibile. Sarò stata nel buco e a casa di Giulia 2 ore in tutto, che diavolo è successo in questo lasso di tempo per ricevere così tanti messaggi?

Giacomo entra e mi abbraccia, Leo quasi piange e urla: “Mamma è tornata! Mamma è tornata! Te l’avevo detto che tornava!”

Io li guardo interdetta: “Ragazzi, stando al mio orologio sono andata via da appena due ore!”
Giacomo mi guarda allibito: “Vale, sei scomparsa per un giorno intero!”

Ah. Quindi non erano le 13.30 dello stesso giorno in cui ero andata via! Erano passate 24 ore.  Ok, restiamo calmi. Ci siamo seduti e ho raccontato quello che mi era successo. Cioè ho spiegato che dal tunnel sotto la nostra casa si accede all’appartamento di mia sorella a Milano. Logico, no? Leo mi ha fatto mille domande su Camilla, di che colore ha gli occhi, i capelli, e io cercavo di spiegargli che l’ho solo sentita attraverso la pancia. Gli ho fatto sentire il suo cuore che batte. Giacomo temo che ancora una volta fosse leggermente scettico sui fatti, e come dargli torto, non sono l’emblema della sanità mentale e ho decisamente una fervida immaginazione, quindi forse mi sono sognata tutto. Anche io, sinceramente, ho qualche dubbio su quello che è successo, soprattutto non ne capisco veramente il senso. È solo per permettermi di rivedere persone che amo? È uno scherzo della mia mente? È come in quel libro in cui quando desideri le cose molto intensamente e ti trovi “dentro la sfera” allora si avverano? È stato tutto un sogno? Ma io ricordo bene le sensazioni che ho provato, l’odore di casa di mia sorella, i movimenti della nipotina nella pancia… era tutto vero.

Quindi, ora abbiamo un po’ di risposte e molte, moltissime nuove domande.
Innanzitutto, ora è comprovato che per ogni ora passata nel buco, nella dimensione “reale” ne passano almeno 12.
Poi, è altrettanto evidente che possiamo entrare nelle porte. È fisicamente possibile, intendo, e si può anche tornare indietro.
Certo, non ci è affatto chiaro il piano dietro a tutto questo. Avrei bisogno di qualche ipotesi, ma non mi viene in mente niente.
Ho mostrato a Giacomo la foto del tastierino, e questo resta uno dei misteri più grandi, per ora, insieme all’interrogativo che riguarda l’identità di chi ci ha lasciato la prima chiave sul pianerottolo.

Quindi, tecnicamente, sono partita l’altroieri mattina (martedì 24 marzo) e sono tornata a casa ieri mattina (mercoledì 25 marzo). Appena tornata, ho raccontato tutto ai ragazzi, abbiamo pranzato insieme, ho telefonato ad alcuni amici, ho giocato con Leonardo, abbiamo suonato il tamburo e fatto musica. Tutto apparentemente normale. Poi mi sono addormentata, e ho dormito fino ad ora, cioè oggi, cioè giovedì 26 marzo. E poco prima di addormentarmi, mi tornata in mente una poesia di un poeta che amo da quando sono adolescente, che ho letto su un vecchio libro di mia madre ingiallito dal tempo. Non capisco perché mi sia venuta in mente proprio questa pagina di questo libro. Stavo per capirlo, quando il sonno ha preso il sopravvento.

Appena sveglia, ho scritto tutto quello che mi ricordavo.

Quindi, allo stato attuale, ho vissuto due giorni in uno (da qui il titolo del post, con doppio giorno). Con questo scherzetto ho condensato 24 ore in sole 2 ore e ho dormito per gran parte del secondo giorno. E questo, in realtà, in un periodo di noia non è male. Ho però paura che ci possano essere conseguenze che ora non colgo. Ci penserò.

Intanto, dobbiamo aspettare la prossima chiave.

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